Cena di beneficenza raccolta fondi per Fare Formazione
Carlo Cracco
Uovo, zucca, provola e liquirizia
Luca Pedata
Scialatiello alla curcuma con frutti di mare e tartare di manzo
Marta Scalabrini
Un tortello di zucca…o quasi
Riccardo Camanini
Pesce Persico Trippato
Corrado Assenza
Dolce d’Autunno
Pascal Barbato
Sky-Bread, Milano incontra la Puglia
Andrea Graziano / Vittorio e Saverio Borgia
Panel Bred
Cesare Battisti
Mondeghili
Franco Pepe
Pizza La Scarpetta
La pasticceria contemporanea deve esaltare l'ingrediente e lavorare per sottrazione
Genialità e rigore sono due concetti apparentemente inconciliabili. A meno che non ci si addentri nel mondo della pasticceria, dove il rigore è fondamentale per la riuscita di ogni preparazione e la genialità serve a distinguere il semplice esecutore dal pasticcere talentuoso. Con l’Ambasciatore del Gusto Gianluca Fusto, interprete geniale e rigoroso della pasticceria italiana, facciamo il punto sullo stato dell’arte e sulle tendenze del settore.
«La pasticceria italiana sta tornando alla concretezza delle origini – osserva Fusto – a un equilibrio che porta in primo piano le preparazioni di base come creme, frolle, bisquit, cioccolato, anche se prima che ci sia coscienza di questo cambiamento in atto passeranno ancora almeno due anni».
Cosa intende per ritorno all’equilibrio?
«Replicare nel mondo della pasticceria contemporanea quello che è accaduto nella cucina dove non si è lavorato per utilizzare meno sale o meno grassi, ma per esaltare l’ingrediente. In pasticceria questa deve essere la strada, anche se lavorare per sottrazione non è semplice e non soddisfa l’ego personale del professionista».
Oggi valgono di più le tecniche o la contaminazione?
«Vanno di pari passo. Social e comunicazione globale fanno sì che le nuove tecniche si diffondano velocemente. Oggi la ricerca in pasticceria va verso la realizzazione di strutture sempre più leggere e l’utilizzo di macchinari di estrazione di aromi. Ci sono distillatori che ci permettono di estrarre oli essenziale dagli ingredienti da utilizzare all’interno dei nostri dolci. L’azoto permette di creare delle strutture completamente diverse grazie al suo bassissimo punto di surgelamento. Contaminazione, per me, significa cercare di capire cosa succede intorno al mondo sia a livello di filosofia sia a livello di tecnica. In questo periodo sto utilizzando un biscotto giapponese cotto a vapore fatto con una pasta choux alleggerita da una meringa; la consistenza è leggerissima e unito a una crema più compatta permette di sviluppare un concetto opposto a quello cui siamo abituati».
La pasticceria vive di geometrie e di gusto, come si combinano tra di loro?
«Non può esserci gusto senza geometrie. La costruzione di un dolce deve essere architettonica, fatta in maniera intelligente e precisa perché il risultato perfetto è un insieme di proporzioni, strutture e consistenze. Il bilanciamento dei gusti, per esempio, è diverso a seconda che si stia preparando una torta tonda da cui si realizzano fette triangolari rispetto a quello di una torta rettangolare e cambia ancora nella ristorazione a seconda che la composizione sia alla francese, quindi con strutture in sovrapposizione, o alla spagnola con le diverse strutture che occupano porzioni di piatto diverse».
Quindi serve un diverso approccio tra pasticceria da banco e da ristorazione?
«Entrambe richiedono le stesse tecniche, le stesse conoscenze chimico-fisiche e una conoscenza perfetta del nostro apparato sensoriale per poter giocare sugli abbinamenti. La grande differenza tra la pasticceria da banco e quella da ristorazione sta nella diversa durata delle preparazioni. Le prime sono fatta per durare, le seconde per morire nel giro di pochissimo tempo così da permettere di non aver limiti nella presentazione. Nella pasticceria da banco, invece, la durata e la trasportabilità per la condivisione nelle case impongono regole completamente diverse di presentazione. Un’altra differenza si riscontra nei dolci dell’alta ristorazione che rappresentano la fine di un percorso filosofico di scoperta di uno chef».
Tra le scoperte di uno chef c’è anche quelle degli ingredienti che oggi sono sempre più spesso locali e di stagione. È lo stesso in pasticceria?
«L’ingrediente è la matrice che fa funzionare la pasticceria, il seme che permette di sviluppare e di sfruttare la parte creativa. Noi pasticceri dobbiamo spingere sempre più sull’utilizzo di ingredienti di stagione e di grande qualità, giunti alla perfetta maturazione. Questo è un punto sul quale vorrei sensibilizzare i colleghi perché un frutto maturo non ha bisogno di altro. Ai clienti, invece, dico che come si rimandano indietro i piatti salati che non vanno bene, lo stesso si può fare con un dessert».
Scegliere, però, gli ingredienti al massimo stato di maturazione implica un rapporto diretto e di fiducia con il produttore…
«Riuscire a instaurare rapporti a media lunga scadenza con i produttori-fornitori è la grande differenza che passa tra i diversi pasticceri. A fare la differenza è il rapporto umano con chi fornisce la materia prima, io conosco personalmente chi produce l’olio e i pistacchi per i miei dolci».
Qual è lo stato dell’arte della pasticceria oltre i confini italiani?
«All’estero la pasticceria ha un valore molto più importante perché la complessità del pasto è molto minore e il dessert ne è il suo completamento. Al contrario i pasti italiani comprendono un piatto di pasta o riso che rappresenta un valore gastronomico e una fonte di chilocalorie. Detto questo, oltreconfine la pasticceria si sta concentrando su design, ricerca della perfezione del bilanciamento e della precisione del dolce perché oggi non si può più essere approssimativi. Anche la vendita di pasticceria da banco è diversa, lo dico da professionista che passa il 70% del suo tempo all’estero: in metropolitana a Parigi la metà delle persone ha un sacchetto diverso di prodotti di pasticceria, a Tokio ancora di più».
Quindi l’Italia è indietro?
«No, è solo diversa».
Mariella Caruso
La ristorazione deve puntare su rispetto e dedizione al lavoro, oggi scarsi
Rosanna Marziale, Ambasciatore del Gusto nonché chef e patron de “Le Colonne”, si accoda al dibattito sull’etica del lavoro.
«Il mondo della ristorazione ha bisogno di un riassetto generale che deve partire dal mondo della scuola, dei centri di formazione e pure dai corsi da sommelier. Lo dico da ristoratore, chef e patron». A parlare è Rosanna Marziale, Ambasciatore del Gusto, una stella Michelin a Le Colonne di Caserta. La considerazione della chef-patron campana parte dalla riflessione sulla difficoltà di trovare personale «che capisca davvero cosa significhi fare il cameriere, il cuoco, il barista e quindi sappia che si tratta di un lavoro che non si ferma il sabato, la domenica e i giorni festivi». Invece, sempre più spesso, continua, «ci si trova ad avere che fare con personale che considera la ristorazione alla stregua di un lavoro d’ufficio».
I RICORDI. «Mio padre mi raccontava sempre che il giorno della morte di mia nonna lui ha dovuto lavorare per mantenere gli impegni presi coi clienti e io ho fatto lo stesso quando morì mio padre perché quel giorno al ristorante c’era un ricevimento di matrimonio. Oggi questo rispetto per il lavoro è venuto meno», dice con amarezza la Marziale. Le distorsioni del sistema in atto sono molteplici. Tra gli anelli deboli della catena, secondo la chef de Le Colonne, ci sono il sistema scolastico e la rottura del patto di fiducia tra le famiglie, «sempre disposte a prendere le parti dei figli», e la stessa scuola.
LA SCUOLA. «A chi frequenta gli istituti alberghieri e i centri professionali per la ristorazione dovrebbe essere spiegata la natura delle professioni legate a questo mondo; l’impegno e il rispetto per un lavoro duro ma che può dare tante soddisfazioni», continua. Nel mirino delle critiche di Rosanna Marziale c’è anche il sistema dell’alternanza scuola-lavoro che, «almeno nel campo della ristorazione dovrebbe essere rivisto». Il motivo è semplice ed è legato, chiarisce la chef, alla natura del lavoro. «Se a un ragazzo è permesso di interrompere il lavoro allo stesso orario scolastico lasciando il servizio a metà, qual è la lezione che imparerà?», è la domanda per la quale, però, non esiste una risposta risolutiva. «Non ho una soluzione – sottolinea, infatti, l’Ambasciatore del Gusto -, ma nelle scuole si deve cambiare il meccanismo, parlare di dedizione, incentivare gli studenti davvero motivati e dissuadere gli altri dal percorso».
I SOMMELIER. Tra i nodi della sala c’è anche quello della figura del sommelier. Il perché Rosanna Marziale, che sommelier avrebbe voluto diventarla, lo spiega, da buona campana, senza peli sulla lingua. «Con la diffusione della passione per il vino e dei corsi da sommelier sono tanti gli appassionati che decidono di farne una professione – dice la chef -. Ma a fronte di una tecnica perfetta manca spesso loro la capacità di portare un vassoio. Anche ai sommelier, quindi, bisogna ricordare che in un ristorante si serve a tavola e anche nei corsi si dovrebbero implementare le nozioni e la pratica del servizio». Sempre in tema di sommelier c’è anche il tema della rigidità nei consigli e negli abbinamenti. «Chi sceglie un vino nella maggior parte dei casi ha piacere di scambiare due chiacchiere col sommelier, ma spesso ha già le sue idee che, anche se non in linea con i piatti, devono essere rispettate».
IL RUOLO DEGLI AMBASCIATORI DEL GUSTO. «Come Associazione possiamo fare tanto ed essere da stimolo per un cambiamento elaborando proposte che avvicinino il mondo della scuola a quello del lavoro – si augura in conclusione Marziale – facendo sì che la scuola formi studenti dediti alla professione e pronti a essere inseriti nel mondo della ristorazione che, in particolar modo, nelle professioni di sala è in sofferenza».
Mariella Caruso
Italian Sounding, fenomeno globale che danneggia l'agroalimentare tricolore di qualità
È stato definito Italian Sounding ed è qualcosa di ben conosciuto dalle aziende agroalimentari italiane. «Si tratta di quel particolare fenomeno diffuso nel mondo, in particolar modo negli Stati Uniti, che consiste nel dare un’immagine italiana a un prodotto agroalimentare di qualità che in realtà non è italiano», spiega Elio De Tullio, avvocato nel settore della proprietà industriale fondatore dello Studio De Tullio & Partners, studio legale internazionale specializzato in materia di proprietà intellettuale, cui abbiamo chiesto di rispondere a qualche domanda su questa “pratica” che danneggia i prodotti italiani.
In termini pratici come si traduce la pratica dell’“Italian Sounding”?
«In particolare si realizza tramite l’utilizzo sulle confezioni di beni prodotti all’estero, di termini e parole italiane, di immagini come, per esempio, la Torre di Pisa o il Colosseo, la sagoma dell’Italia o il Tricolore, di espressioni e richiami espliciti alle origini italiane di un prodotto ovvero di chiari riferimenti geografici come possono essere Tuscan, Sicilian, Apulian, Napoli, Palermo e via dicendo. In tal modo, i consumatori esteri vengono indotti in errore circa l’origine di quei prodotti».
È un fenomeno che abbraccia anche i prodotti protetti da Indicazioni Geografiche e Denominazioni d’Origine?
«Sì. E anche in questo caso l’imitazione del prodotto protetto viene effettuata tramite un richiamo all’origine italiana utilizzando parole, immagini, colori o espressioni fuorvianti. Tra questi secondo la tradizione…, Italian style, secondo la ricetta tipica…, Italian food o autentico Italiano e simili. Questi comportamenti sono spesso considerati leciti nei Paesi esteri interessati dal fenomeno, (come gli Stati Uniti) e, pertanto, sono difficilmente perseguibili e sanzionabili legalmente».
Giuridicamente siamo davanti a un fenomeno di contraffazione?
«Sotto questo aspetto l’Italian Sounding si differenzia dalla vera e propria contraffazione, che riguarda la violazione e l’illecita riproduzione/utilizzazione di marchi, brevetti, copyright, loghi, design e indicazioni geografiche (ove queste siano riconosciute e tutelate) ed è un fenomeno illecito e legalmente perseguibile a livello globale. In tema di Italian Sounding è necessario che i Consorzi di tutela svolgano un ruolo attivo nel monitorare il mercato e le banche dati, nell’investigare situazioni di potenziale interferenza e nel reagire a tali situazioni, chiedendo la cessazione dei comportamenti lesivi, se giuridicamente rilevanti, e il risarcimento dei danni».
Si legge spesso di sequestri di prodotti sequestrati nell’ambito di esposizioni fieristiche. Quando, e dove, è possibile agire così a tutela dei prodotti italiani?
«Durante le fiere è importante monitorare gli stand dei competitor per verificare la presenza di eventuali contraffazioni. In alcuni casi, infatti, dove il regolamento della fiera lo preveda, ci si può rivolgere agli addetti a specifici servizi in materia che spesso si avvalgono di consulenti e avvocati specializzati».
Come funzionano questi servizi?
«Sempre più spesso, gli organizzatori delle fiere predispongono servizi di tutela della proprietà intellettuale, che comprendono anche un primo intervento per far cessare i comportamenti lesivi già nel corso della manifestazione allegando le prove della contraffazione e della titolarità dei diritti violati, per ottenere la rimozione dei prodotti contraffatti dalla Fiera. Questi servizi offrono anche la possibilità di raccogliere prove certe delle violazioni, da utilizzare in possibili future azioni legali, e di intervenire in casi di sospetta contraffazione tramite richiesta di provvedimenti di sequestro, inibitoria e rimozione dei prodotti contraffatti. In ogni caso, sarà sempre possibile ricorrere all’autorità giudiziaria (civile o penale a seconda dai casi) per ottenere misure cautelari e ingiunzioni, ovvero all’autorità doganale per fermare l’importazione delle merci sospette».
Quali sono i prodotti più a rischio e quali sono i Paesi in cui è più difficile proteggere i prodotti italiani?
«Formaggi, olio di oliva, pasta, prodotti ortofrutticoli, salumi, vini, sughi e salse.
I Paesi in cui il fenomeno è maggiormente sviluppato, invece, sono Stati Uniti e Canada, Paesi dell’America Latina, Russia, Paesi Balcanici, Paesi del Sud Est Asiatico (Corea, Cina, Malesia, Indonesia), ma anche alcuni Paesi della UE, ad esempio, Germania, Romania, Paesi Bassi, Spagna, Ungheria. Le difficoltà maggiori, però, si incontrano negli Stati Uniti dove le Indicazioni Geografiche non godono della tutela sui generis prevista dalle normative europee, ma soltanto della tutela prevista dalle normative in materia di marchi; pertanto l’utilizzo delle indicazioni fuorvianti Italian Sounding sopra menzionate, in associazione a prodotti realizzati negli USA, è generalmente consentito».
Giuridicamente qual è lo stato dell’arte attuale?
«Attualmente, la protezione dei prodotti italiani di qualità nei Paesi esteri è ostacolata dalle normative nazionali. Inoltre, molti dei Paesi interessati dal fenomeno (tra cui gli USA) non hanno aderito all’Accordo di Lisbona del 1958 (e successiva revisione con l’Atto di Ginevra del 2015) e al relativo sistema internazionale di protezione delle Indicazioni Geografiche, che concede una protezione automatica nei Paesi aderenti tramite l’iscrizione e la registrazione delle stesse nel registro internazionale tenuto presso il WIPO (World Intellectual Property Organization)».
Perché non è possibile proteggere adeguatamente i nostri prodotti all’estero?
«Lo scenario attuale di protezione delle Indicazioni Geografiche non offre una tutela effettiva ed efficace, armonizzata a livello internazionale, in particolare in quei Paesi in cui le IG sono tutelate tramite il sistema dei marchi. Negli USA e nei paesi di common law, infatti, per tutelare i prodotti agroalimentari protetti da IG si deve ricorrere al sistema dei trademarks (tramite il deposito di individual, certification e collective marks). Tale sistema è caratterizzato dal principio del “first to use” e molti termini che compongono le denominazioni protette da IG in Europa sono considerati in tali Paesi nomi comuni, generici e descrittivi, del prodotto cui si riferiscono e, di conseguenza, non registrabili. Inoltre, i marchi sono soggetti a rinnovo ogni 10 anni e ad altri adempimenti formali, a cui non sono sottoposte le Indicazioni Geografiche».
Quindi qual è attualmente il modo migliore per tutelare questi prodotti?
«Nell’attesa di arrivare a tale armonizzazione, tuttavia, i titolari dei diritti possono sorvegliare il mercato e reagire utilizzando gli strumenti attualmente esistenti in ciascun Paese che consentono, in ogni caso, e con i limiti sopra descritti, di delimitare e controllare il fenomeno».
Mariella Caruso
Formati e contenti... dall'aula al piatto
Un evento per ringraziare e ripartire. Questo è stato la cena con la quale venerdì scorso è stata celebrata la conclusione del progetto Fare Formazione promosso dall’Associazione Italiana Ambasciatori del Gusto per sostenere il Centro di Formazione Professionale Alberghiero di Amatrice che dopo il terremoto dell’agosto 2016 era stato costretto a emigrare a Rieti per l’inagibilità della struttura che lo ospitava. I protagonisti della cena sono stati i piatti realizzati dagli studenti dei corsi di cucina del quarto anno sperimentale con la supervisione di tre Ambasciatori del Gusto, i fratelli Sandro e Maurizio Serva e Carlo Cracco, serviti in tavola dagli studenti del corso di sala anche loro arrivati alla fine del percorso scolastico.
IL PROGETTO. «Fare Formazione è un progetto in cui crediamo molto perché racchiude diversi temi cari agli Ambasciatori del Gusto, ovvero il miglioramento del programma didattico e l’aggiornamento dei metodi d’insegnamento delle scuole e degli istituti alberghieri e valorizzazione enogastronomica del territorio», spiega la presidente dell’Associazione Cristina Bowerman. Un successo partito da un’idea: dare una mano al Centro di Formazione Professionale Alberghiero di Amatrice a corto di iscrizioni perché rimasto senza una casa. Le idee migliori, però, sono quelle che si tramutano in azioni. E l’Associazione Italiana Ambasciatori del Gusto ha tradotto l’idea nel progetto Fare Formazione, un percorso didattico di crescita per gli studenti e di valorizzazione dell’enogastronomia del territorio. Il progetto è stato finanziato con la cena di beneficenza 7 Chef per Amatrice organizzata lo scorso 2 ottobre a Roma in concomitanza con il 1° compleanno dell’Associazione. Quel giorno gli Ambasciatori del Gusto Antonello Colonna, Enrico Bartolini, Paolo Brunelli, Martina Caruso, Pietro Leemann e Francesco e Salvatore Salvo hanno messo a disposizione il loro talento in una rivisitazione della classica amatriciana e l’Associazione ha raccolto diecimila euro che sono serviti a dare il via al progetto che si è concluso con lo scorso weekend con un’altra cena di beneficenza. A organizzare quest’ultimo evento è stato lo stesso Centro di Formazione Professionale Alberghiero di Amatrice legandolo a una raccolta fondi per sostenere il prossimo ciclo di Fare Formazione.
A LEZIONE DAI PROFESSIONISTI. Dallo scorso gennaio nell’ambito del progetto organizzato dagli Ambasciatori del Gusto, alcuni chef e maître aderenti all’Associazione hanno tenuto lezioni agli studenti dell’ultimo anno del Centro Professionale Alberghiero di Amatrice. In cattedra sono passati, Renato Bosco di Saporé di San Martino Buon Albergo che, oltre a svelare alcuni dei segreti della pizza, è stato il promotore del passaggio di alcuni degli studenti del Centro Professionale Alberghiero di Amatrice al Congresso internazionale di cucina Identità Golose 2018 dove i ragazzi lo hanno assistito durante la sua lezione e, nel contempo, ospitati nello stand degli Ambasciatori del Gusto, hanno avuto la possibilità di entrare in contatto con il mondo dell’alta cucina. I Fratelli Serva de La Trota di Rivodutri che hanno parlato di come riscoprire e valorizzare il pesce d’acqua dolce, Marco Stabile dell’Ora d’Aria di Firenze, che ha tenuto la sua lezione sulla cucina della carne, Mariella Caputo de La Taverna del Capitano di Massa Lubrense e Marco Reitano de La Pergola di Roma che si sono occupati di accoglienza, servizio in sala e ruolo del sommelier.
RISULTATI LUSINGHIERI. «Il Centro Professionale Alberghiero di Amatrice ci ha comunicato di aver già aumentato sensibilmente le richieste di iscrizione per il prossimo anno», afferma il numero uno degli Ambasciatori del Gusto, Cristina Bowerman, soddisfatta per «questi primi grandi risultati». Il ringraziamento è arrivato anche dalla direttrice del Centro, Anna Fratini. «Grazie agli Ambasciatori del Gusto – ha detto Fratini – che hanno voluto condividere con gli allievi dell’Alberghiero di Amatrice momenti di alta cucina, trasmettendo loro tutta la passione necessaria per chi vuol fare questo lavoro». Il progetto, naturalmente, non si fermerà ad Amatrice. «Siamo quindi felici di aver iniziato da Amatrice, zona di eccellenza gastronomica conosciuta a livello mondiale – conclude Bowerman -. la nostra iniziativa che riguarda il miglioramento del programma didattico, la preparazione degli allievi, l’aggiornamento dei metodi d’insegnamento e la valorizzazione dei territori».
Mariella Caruso