La Settimana della Cucina Italiana nel Mondo vista dagli Ambasciatori
È stata un’intensa settimana quella trascorsa dagli Ambasciatori del Gusto impegnati nei quattro angoli della terra per la terza edizione della Settimana della Cucina Italiana nel Mondo. In piena armonia con le finalità dell’Associazione che, tra l’altro, come ha spiegato il segretario generale Cesare Battisti alla presentazione delle iniziative, «collabora con le istituzioni per fare sistema, aiutando nella conoscenza dei prodotti che contribuiscono al successo dell’export del Made in Italy enogastronomico», gli Ambasciatori sono volati in Cina, negli Stati Uniti, in Giappone, in Russia, Ucraina, Israele e Bolivia per portare il patrimonio di conoscenza enogastronomica italiana. Ma come accade sempre quando s’incontrano altre culture l’arricchimento è sempre reciproco, e così è stato anche per gli Ambasciatori.
«La storia della cucina è in costante evoluzione e quello che imparo all’estero è sempre fonte di grande ispirazione», ha ammesso Paolo Griffa, giovane chef del ristorante Petit Royal di Courmayeur. «L’indole degli italiani è molto legata al viaggio: ci piace conoscere, scoprire cose nuove. E quello che apprendiamo fuori dai confini nazionali lo riportiamo a casa per applicarlo a modo nostro», ha continuato Griffa che ha cucinato a Mosca preparando un dessert con cioccolato, nocciola, caffè e schiuma al latte e vaniglia. Con lui nella capitale russa c’è stato anche il gelatiere Stefano Guizzetti che approdava per la prima volta nella terra degli zar. «Non ero mai stato in Russia e quest’esperienza, come ogni altra all’estero, mi è interessata sia a livello personale, sia professionale anche per arricchire il mio bagaglio di conoscenza sul gelato all’estero, sul gusto delle persone fuori dai nostri confini e sulla loro percezione del dolce. Bresciano, titolare di Ciacco, gelateria con sedi a Parma e Milano, Guizzetti è stato protagonista di un “gelato show” al Caffè Bosco, nello storico centro commerciale GUM in Piazza Rossa, durante il quale ha preparato il gelato con ingredienti tipici russi. «La collaborazione tra chef locali e Ambasciatori del Gusto è andata benissimo e mi ha fatto capire che c’è ancora tanto lavoro da fare se si vogliono fare ulteriori passi avanti», continua Guizzetti che a Mosca ha cercato di trasmettere la ricerca che investe il gelato, «un alimento trasversale che può essere inserito in contesti molto inconsueti. Di sicuro iniziative come questa contribuiscono a diffondere la cultura del cibo italiano di qualità nel mondo. Per questo spero di poter ripeterla in futuro, sempre in collaborazione con gli Ambasciatori del Gusto».
Un’«esperienza bellissima e indimenticabile» l’ha vissuta anche lo chef calabrese Francesco Pucci a Smirne, in Turchia. «Ho toccato con mano la realtà della Turchia e la loro grande voglia di conoscere e apprendere la cultura gastronomica italiana. Ho incontrato persone disponibili e anche intraprendenti e sono tornato in Italia arricchito sotto il profilo umano, professionale e anche culinario». Un plauso e un «evviva!» agli Ambasciatori del Gusto l’ha rivolto Alessandro Pipero che, con Ciro Scamardella, il suo nuovo chef al Pipero Roma ha partecipato alle attività della Settimana Italiana della Cucina nel Mondo a Tel Aviv, in Israele. «Queste iniziative migliorano noi, il sistema Paese e anche la nazione che ci ospita. Grazie all’Associazione abbiamo fatto conoscere la qualità di Pipero Roma anche a Tel Aviv dove io e il mio chef – conclude – abbiamo ricevuto un’accoglienza fantastica».
“Un’esperienza bellissima e un’accoglienza fantastica in uno scenario come la città di Vienna, a dir poco da favola. – queste le prime impressioni di dello chef siciliano Francesco Arena del panificio messinese Masino Arena, appena rientrato dall’Austria – L’ambasciatore italiano e tutto il suo staff ci hanno da subito accolti a braccia aperte e messo a disposizione le cucine, i saloni e tutto il necessario per preparare la cena di gala, che aveva come tema l’enogastronomia siciliana. La serata è stata un successo da record per l’ambasciata e questa è già una grande soddisfazione per noi. Li abbiamo conquistati con un menù semplice ma ricercato nelle materie prime, tutte esclusivamente presidi Slow Food. Anche il pane della serata lo abbiamo prodotto in loco, con farine di grani antichi siciliani. La serata si è poi conclusa con una piacevole sorpresa, l’ambasciatore mi ha simbolicamente consegnato le chiavi della loro cucina, in qualità di Ambasciatore del Gusto!”
Mariella Caputo, sommelier e proprietaria de La Taverna del Capitano a Massa Lubrense, insieme al fratello Alfonso, è partita per la Bolivia. “Appena arrivati ci siamo subito accorti dell’enorme entusiasmo che c’è per la cucina italiana e i suoi prodotti veri, così come i metodi di cottura e manipolazioni delle materie prime.Le masterclass hanno rivelato la loro grande voglia di conoscere i nostri prodotti e assaggiare nuovi sapori.” Questa esperienza, ci racconta l’Ambasciatrice del Gusto, è stata anche una grande sfida per i due fratelli “La Bolivia raggiunge altezze considerevoli, siamo passati dal clima equatoriale di Santa Cruz de la Sierra a La Paz, dove il clima di montagna passa da 9 a 22 gradi durante la giornata, e il problema del “mal di montagna” a 3600 m di altezza.
Inoltre,i prodotti italiani acquistabili in loco sono pochissimi (pasta e pomodori in scatola, parmigiano) a prezzi esorbitanti a causa delle tasse elevate e della scarsa qualità. Per fortuna, l’ambasciatore italiano è stato molto disponibile e prima della partenza ci ha fornito tutte le informazioni e i documenti necessari per portare tutto l’occorrente per la masterclass con noi. È stato incredibile vedere nei loro mercati pomodori, melanzane, patate, fagiolini, zucchini, broccoli…ho pensato subito a Cristoforo Colombo e a cosa sarebbe stata la nostra cucina senza di lui. Da questa esperienza torniamo sicuramente arricchiti e parola d’ordine di oggi è sicuramente: contaminazione.”
Mariella Caruso
In Franciacorta con Berlucchi tra vigneti, vini e orgoglio familiare
Nel 1961 Franco Ziliani e Guido Berlucchi rivoluzionarono il mondo del vino della Franciacorta con la produzione delle prime bottiglie di Pinot Franciacorta. «Oggi vorremmo che l’azienda Berlucchi potesse essere un traino per il successo internazionale di tutto il comparto vitivinicolo della Franciacorta», confessa Paolo Ziliani, figlio di Franco che è a capo della comunicazione dell’azienda di Borgonato. «Da quando grazie all’intuizione di mio padre e di Guido Berlucchi venne prodotta la prima bottiglia di bollicine in Franciacorta, la notorietà del brand, del vino e del territorio è cresciuta molto bene in Italia. Nei prossimi 50 anni bisogna dare la spinta giusta per aumentarne la notorietà all’estero seguendo la stessa via di altri vini come il Barolo, il Brunello e lo stesso Prosecco», sottolinea Ziliani concentrandosi anche «sul piccolo fazzoletto di terra che è la Franciacorta importante anche dal punto di vista storico». Oltre alle sue cantine, «tutte orientate verso una produzione di qualità», infatti, il territorio è ricco di «palazzi bellissimi, case storiche, dimore medievali molto belle tra cui anche il nostro Palazzo Lana, sede e luogo sacro dove è nato il primo Franciacorta».
Sentite molto questa responsabilità di essere l’azienda pioniera?
«Assolutamente sì. Questo è un concetto diffuso all’interno del Consorzio per la Tutela del Franciacorta, che si è dotato di un disciplinare molto più severo di tanti altri che stabilisce, per esempio, che non si possono produrre oltre 8.600 bottiglie per ettaro».
Cosa rappresenta, invece, il Franciacorta per la famiglia Ziliani?
«Praticamente tutto. La nostra azienda, oltre a essere sinonimo di territorio, per noi è la vita. Nessuno ha mai pensato di occuparsi d’altro, ognuno ha le sue specifiche competenze e, ovviamente, ci sono delle visioni diverse che ci fanno confrontare facendoci crescere. Io sono un enologo come mio padre, quando ho cominciato a prendere in mano la produzione portando innovazione in azienda mi sono scontrato anche con mio padre che, però, poi ha riconosciuto la bontà delle mie scelte in merito al rinnovo completo dei vigneti con una elevata densità d’impianto e l’innovazione dei processi di produzione. I costi elevati di queste operazioni, infatti, alla fine ci hanno premiato».
Tecnologia e sostenibilità vanno a braccetto nei vostri vigneti. Quando e perché avete deciso la conversione al biologico?
«Tutto è nato da uno studio propostoci dall’Università di Milano per verificare se la conduzione biologica dei vigneti fosse meno impattante di quella tradizionale. Abbiamo cominciato a convertire con un vigneto di 10 ettari e dopo 5 anni lo abbiamo fatto con tutti gli 85 ettari dei vigneti di famiglia che oggi sono tutti certificati. Ma c’è di più perché siamo riusciti a convincere la maggior parte dei vigneron che conferiscono le loro uve in azienda, in totale lavoriamo su circa 550 ettari, a convertire in biologico le loro produzioni. Questo non significa che ambiamo a mettere il bollino verde sull’etichetta, ma a fare il miglior vino possibile. Perché non bisogna dimenticare che noi abbiamo un socio di maggioranza: il clima che determina, in primo luogo, la qualità dell’annata».
Come state affrontando i cambiamenti climatici?
«Negli ultimi 15 anni le vendemmie sono state mediamente anticipate per la maturazione precoce delle uve. A questo rispondiamo con un’accurata conduzione del vigneto, lasciando più foglie per ombreggiare i grappoli, utilizzando tecniche di spremitura accurate per mantenere freschezza e acidità. Adesso stiamo provando l’impianto di un’antica qualità bresciana, l’erbamat, un’uva molto verde che matura un mese dopo la chardonnay che è stata inserita nel disciplinare Franciacorta».
Quale tra i vostri vini considerate il più rappresentativo?
«Personalmente sono molto soddisfatto del nuovo ’61 Nature Rosé – un rosé non dosato, millesimato del 2011 – presentato al Vinitaly 2018 perché coniuga l’eleganza e la freschezza di un bianco, di un brut o di un satèn alla complessità di un vino più corposo. Oggi il rosé è di tendenza, ma a me piace ricordare che il primo sul mercato è stato il Max Rosé 1962».
Oggi Berlucchi significa anche cultura, quanto orgoglio c’è in questo da parte vostra?
«Noi ci stiamo sforzando di comunicare il nostro orgoglio e di portare in Franciacorta tutti coloro che hanno voglia di conoscere, di visitare i vigneti, di appassionarsi al nostro lavoro, di conoscere la storia di un luogo come Borgonato dove il vino si faceva già nel Medioevo nelle tenute del re longobardo Desiderio».
Mariella Caruso
Enrico Bartolini fra etica e successi
Con sei stelle divise per cinque ristoranti tra Piemonte, Lombardia, Veneto e Toscana, Enrico Bartolini è lo chef più premiato dalla Guida Michelin. Toscano, classe 1979, l’Ambasciatore del Gusto non è solo una superstar dei fornelli, ma anche un capace imprenditore. «Guadagnare una stella è prestigioso, ma non cambia nulla a livello organizzativo perché arriva come riconoscimento di un lavoro già fatto – dice Bartolini -. A cambiare, però, sono le aspettative degli ospiti che non vanno a cena in un ristorante, ma a fare un’esperienza in quel ristorante e questo richiede consapevolezza da parte dello chef. Imprenditorialmente, poi, sono un valore. Dal momento in cui ho avuto le due stelle al Mudec sono aumentate le richieste di collaborazioni all’estero».
Cosa significa essere un cuoco-imprenditore?
«Nei libri di scuola sui quali ho studiato c’era scritto che il cuoco si chiama “chef de cuisine” quando guida un organico di almeno otto persone perché ha un ruolo di managerialità, di controllo ed è responsabile del lavoro di altre persone. Quindi lo chef è già un po’ imprenditore. Fare impresa, invece, è un termine più ampio perché include anche la parte finanziaria e logistica. Nella ristorazione, per la mia esperienza degli ultimi 13 anni di cuoco con partita iva, credo che fare impresa richieda un impegno analogo a quello di una grande industria con in più una vivissima attenzione alle sfumature e una concentrazione massima necessaria a causa della ripetitività delle prestazioni perché il processo di controllo del lavoro svolto è breve e a cavallo della produzione. Questo si traduce in un maggior sforzo e minor ritorno».
Ci fa un esempio pratico?
«Mio padre faceva scarpe e alla fine della produzione c’era il tempo di ricontrollare il lavoro. Se qualcosa era da rifare si ritardava la consegna. Il cliente mugugnava, ma nulla di più. In un ristorante se gli spaghetti sono troppo al dente o scotti vengono rifiutati ed è un danno. Detto questo l’organizzazione di un’attività ristorativa è la cosa che amo più di ogni altra perché mi ha dato stimoli e, da un certo punto in avanti, mi ha permesso di viaggiare con grande qualità».
Esiste una ripetitività anche nel processo di organizzazione di ristoranti diversi?
«Più che ripetitività, bisogna avere coraggio per fare più cose, individuare le risorse umane in grado di occuparsi del controllo di gestione e avere un posizionamento preciso. Dedicarsi a un concetto di ristorazione solo per far volumi senza un’idea precisa sembra facile, ma bisogna tener conto del rischio d’impresa. Poi, anche se c’è una forte attenzione al mondo della gastronomia ed è più facile trovare finanziatori, bisogna impegnarsi a mantenere etico il nostro mondo».
Cosa serve per mantenerlo etico?
«Avere un’idea, farla maturare nel lungo periodo, cercare umilmente di portarla avanti accettando gli errori e, soprattutto, tenendo conto del parere dei clienti. Nelle mie aperture – 5 in prima persona e 6 in partecipazione – c’è sempre stata prima la definizione di un luogo che deve avere qualcosa da dire, poi quella dell’atmosfera che gli si vuol dare e poi la scelta delle persone giuste che è fondamentale. Mi è capitato di rinunciare a proposte importanti per la mancanza di forza di uno staff formato. In generale non mi interessa portare avanti progetti senza prospettiva».
Quello che avete inaugurato e poi chiuso nell’ambito di Fico fa parte di questi ultimi?
«Quello di Fico è stato un progetto che abbiamo avviato in un contesto diverso dai soliti. Ne abbiamo avuto conferma quando il luogo ha cominciato a essere frequentato da persone che non lo associavano a un pranzo gourmet. Io stesso ho amato durante le visite con i miei bambini piluccare qua e là. Così abbiamo chiesto di uscire e ci siamo accordati».
Lei ha rimarcato l’importanza delle risorse umane. Qual è il suo criterio di scelta?
«Una combinazione di caratteristiche che cambiano caso per caso. Donato Ascani che è al Glam a Venezia, per esempio, non ha bisogno di me per cucinare bene; insieme abbiamo formalizzato un menu in cui l’identità veneziana di quel luogo è ben sottolineata. Nelle sue corde c’è l’esaltazione dei dettagli che è possibile in un locale con un numero di coperti contenuto, e Venezia lo permette perché chi arriva al ristorante è disposto a spendere qualcosa in più».
Oggi molti giovani vogliono diventare chef più per la ricerca di successo che per reale amore per la cucina. Come si può contrastare questa tendenza?
«È vero che la comunicazione influenza. Ma avere successo non significa diventare chef da copertina, ma sentirsi realizzato. Io sono felice perché nella mia cucina lavoro con persone che si applicano per realizzare un contenuto. Penso che i giovani interessati a questo mondo dovrebbero avere voglia di entrare in un team e restarci per un po’ per apprendere. Purtroppo oggi ci troviamo davanti al fenomeno del collezionismo delle esperienze».
C’è anche una rigidità degli stagisti che arrivano dalle scuole?
«I ragazzi sono molto attenti agli orari, ma per questo lavoro ci vuole flessibilità: mi piacerebbe che lo stagista restasse per vedere com’è venuta la focaccia alla quale ha lavorato, ma questo dovrebbero comprenderlo anche i genitori. Io, per esempio, andavo a scuola la mattina e la sera lavoravo, ho fatto il libretto di lavoro a 14 anni e a 16 ho incontrato Antonio Pirozzi, in assoluto colui che mi ha dato più stimoli. Oggi io ho paura ad assumere un minorenne per le maggiori responsabilità che ne derivano».
Quanto vale la sala in un ristorante?
«Come imprenditore dico più della cucina perché è la sala che rende l’atmosfera desiderosa di essere vissuta. Come cuoco la sala mi deve dare la sicurezza che tutto il lavoro fatto dall’alba alla notte venga rispettato e che il piatto non venga preso e buttato sul tavolo. Da cliente mi auguro entrambe le cose».
Quali sono le criticità di un imprenditore della ristorazione nel rapporto con lo Stato?
«Premesso che l’Italia è un Paese con una storia gastronomica, disciplina e (forse troppe) leggi che però ci permettono di lavorare molto bene in fatto di qualità e controllo degli alimenti. Quando mi sono trovato a dover decidere di mettere un piede abbondantemente fuori dall’Italia ho rifiutato perché la malinconia per gli ingredienti e la gente italiana sarebbe stata esagerata. Secondo me invece di piangerci addosso dovremmo lavorare per cambiare alcune cose».
Quali, per esempio?
«Avere un regolamento per il “no show” che è un problema serio. Aumentare il rispetto per gli imprenditori che, negli ultimi anni, vengono percepiti come sfruttatori con il conto in banca pieno di soldi. Invece la maggior parte dei piccoli imprenditori, come me, muovono l’economia generando utili molto bassi. Ovviamente l’imprenditore da parte sua non deve avere lavoratori in nero e deve essere organizzato. Ma come si può motivare un cameriere che ha un solo giorno e mezzo libero alla settimana, con 1.300 euro al mese che non corrispondono al costo per l’imprenditore che è ben più alto? Io non contesto il lordo, ma credo che bisognerebbe lavorare a una diminuzione del carico fiscale che avvantaggi il lavoratore».
Mariella Caruso
Per Olio Flaminio la qualità dell'extra vergine d'oliva è di casa
Irene Guidobaldi è l’anima del brand Flaminio, l’olio extra vergine di oliva tracciato prodotto in Umbria con papà Angelo e il fratello Ernesto nell’azienda di famiglia, la Società Agricola Trevi Il Frantoio. Diventare una paladina delle produzioni familiari di eccellenza non era tra gli obiettivi di Irene che da giovane avrebbe voluto diventare un magistrato. Dopo gli studi giuridici a Perugia e il corso di preparazione all’esame a Roma, però, colpevole un punto in meno del necessario e un blocco dei concorsi, Irene si trasferisce a Milano dove mette in bacheca anche un Master in Diritto della concorrenza della Comunità Europea e guadagna un posto nello studio legale Allen & Overy. Correva l’anno 2003 e la vita di Irene Guidobaldi sembrava ormai tracciata.
A spingere la dottoressa in legge Irene Guidobaldi al ritorno a casa, fu l’incontro con Sandra Ciciriello, ex socia di Viviana Varese al ristorante Alice. Da lì a poco avrebbe dato vita al brand Flaminio per il desiderio di mettere anche il suo nome nell’albo dell’ottava generazione di olivicoltori di famiglia.
Cooperativa negli anni 60, società a responsabilità limitata nel 1985 e poi Società per azioni, «ma solo con capitale familiare», la Società Agricola Trevi Il Frantoio in quel tempo «si occupava di vendita diretta a privati con il brand Trevi». Fu allora la lungimirante Irene Guidobaldi creò il marchio Flaminio destinato al canale Ho.re.ca. «Partii in sordina, a costo zero, con tre selezioni: il Delicato, il Fruttato e la Dop e una selezione di quattro referenze di pasta prodotto da un pastificio che è di fronte il frantoio», ricorda Guidobaldi che oggi, nel listino Flaminio, oltre all’eccellenza dell’olio umbro nell’alta ristorazione, ha aggiunto una selezione di olio extravergine non filtrato disponibile solo nel periodo della lavorazione, dieci referenze di pasta, due di aceto balsamico («Siamo una delle due aziende umbre ad avere ottenuto l’Igp per l’imbottigliamento»), alcune di legumi umbri e una di aceto di vino tradizionale «realizzato per acetificazione statica lenta senza forzature meccaniche e un invecchiamento in barrique di rovere per quasi due anni da Andrea Bezzecchi, presidente del Consorzio dell’Aceto Balsamico Tradizionale di Reggio Emilia, con un vino rosso Igp superiore umbro che, all’inizio, nessuno voleva vendermi perché sapevano che volevo farne aceto».
«Ho sempre selezionato prodotti di qualità per Flaminio perché devono essere messi accanto all’olio evo d’eccellenza prodotto dalla mia famiglia e perché mi interessa soltanto far arrivare il mio brand a chi fa della qualità un mantra», spiega Guidobaldi. Qualità che, nell’Olio Flaminio, è garantita dal marchio Dop, «quella che oggettivamente garantisce la provenienza e la qualità», dalla certificazione Unaprol di rintracciabilità e da quelle «45000 piante, un frantoio (il primo a ottenere l’Iso 9002 nel 19944) di proprietà, magazzino sotterraneo e imbottigliamento in camera sterile». E anche una qualità che, via via, viene sempre più riconosciuta dalla ristorazione. «Oggi – conclude – chef e ristoratori stanno finalmente cominciando a capire sempre di più qual è il valore di portare a tavola una buona bottiglia di olio extravergine».
Mariella Caruso
Gli Ambasciatori del Gusto portano i sapori italiani intorno al globo
Sette giorni, dal 19 al 25 novembre, dedicati alla cucina italiana che sarà celebrata in 110 Paesi del mondo con 1300 eventi tra conferenze, degustazioni, cene di gala, corsi di cucina, concerti e mostre a tema enogastronomico. È la Settimana della Cucina Italiana nel Mondo, al via ufficialmente lunedì con un pranzo di gala nei Saloni dell’Ambasciata dell’Italia di Parigi. Il progetto della Settimana di promozione, nato nel 2015 in concomitanza con l’Expo, festeggia il suo terzo compleanno e continua nel suo intento di far conoscere la cultura enogastronomica italiana promuovendo attività di formazione per sviluppare collaborazioni di lungo periodo tra cuochi italiani e colleghi locali, tutelando e valorizzando prodotti a denominazione protetta e controllata e contrastando il fenomeno dell’Italian sounding.
LA PRESENTAZIONE A ROMA. A svelare il calendario della Settimana della Cucina Italiana nel Mondo e tutti i dettagli della terza edizione sono stati, a pochi giorni dalla partenza dell’appuntamento, la vice ministra degli Affari esteri e della Cooperazione internazionale, Emanuela Claudia Del Re, e il ministro delle Politiche agricole, alimentari, forestali e del turismo, Gian Marco Centinaio. «Vivere all’italiana non vuol dire soltanto vivere godendo della dimensione del bello e della qualità, ma anche vivere più a lungo – ricorda il ministro Centinaio -. Nel settembre scorso siamo riusciti a sventare un tentativo in ambito Onu di distinguo tra cibi salutari e non salutari che non era focalizzato, come è giusto, sugli stili di vita e sulle diete che, invece, possono essere salubri o insalubri. E la nostra è sanissima per riconoscimento internazionale. All’Onu va promosso, quindi, il nostro stile di vita, salutare e strumento di longevità, affinché non si tocchino i prodotti made in Italy. L’Italia è il paese delle eccellenze e dobbiamo essere orgogliosi dei nostri prodotti enogastronomici e del nostro regime alimentare».
«La valorizzazione del Sistema Italia passa per la tavola, e l’agroalimentare è un componente essenziale del Made in Italy. I cuochi sono ambasciatori della nostra tradizione e, nello stesso tempo, della capacità di innovazione, ma vanno promosse collaborazioni con cuochi locali per far sì che il made in Italy arrivi in tutte le tavole – ribadisce Centinaio -. Negli ultimi dieci anni il valore dell’export di cibo e vino italiano è aumentato dell’80%. Ma la politica ha capito troppo tardi il valore della promozione integrata che, adesso, diventa realtà attraverso l’accorpamento delle competenze ministeriale di agricoltura e turismo».
La cucina italiana, inoltre, è importante sotto il profilo economico e incide, come sottolinea la vice ministra Del Re, «per il 13% nel Pil complessivo. L’Italia, inoltre, è prima per imprese agricole biologiche. E in un mondo in cui cambia la domanda degli alimenti, il nostro Paese risponde con tipicità, esperienza culturale e qualità».
I FOCUS. Per questo i focus di quest’edizione della Settimana della Cucina Italiana nel Mondo, concomitante con il 2018 Anno del Cibo Italiano, saranno dedicati, in particolare, alla promozione della Dieta Mediterranea (già patrimonio immateriale dell’Unesco) e dei suoi ingredienti, alla valorizzazione degli itinerari enogastronomici e turistici regionali e alle celebrazioni dei Centenari Rossiniani in occasione del 150° anniversario della morte del compositore che era anche un noto gastronomo. A questi si aggiunge la promozione del Pasta Pesto Day che vedrà devolvere 2 euro (uno donato dal cliente e l’altro dal ristoratore) al Comune di Genova per ogni piatto di pasta al pesto ordinato in qualunque ristorante al mondo che partecipa all’iniziativa.
L’IMPEGNO DEGLI AMBASCIATORI DEL GUSTO. «Per l’Associazione che si è costituita tre anni fa, presso il Ministero delle Politiche Agricole, Alimentari e Forestali, con lo scopo principale di valorizzare e promuovere il vero Made in Italy, l’impegno nei confronti della conoscenza della cucina italiana nel mondo dura 365 giorni l’anno», ha esordito il segretario generale degli Ambasciatori del Gusto Cesare Battisti, intervenendo alla presentazione. «Per i nostri associati promuovere la cucina italiana di qualità significa anche affiancare i docenti degli istituti alberghieri nella formazione dei ragazzi, insegnare loro la cultura e la storia della nostra cucina declinata anche in forma contemporanea per far sì che i nostri ragazzi possano, in futuro, essere Ambasciatori del nostro Paese», ha continuato. «Collaboriamo, inoltre, con le istituzioni per fare sistema, aiutando nella conoscenza dei prodotti che contribuiscono al successo dell’export del Made in Italy enogastronomico; sensibilizziamo il mondo dei media sul significato di cucina italiana di qualità nel nome di una filosofia e di una cultura del cibo che è anche rete, professionalità e visione di prospettiva».
Per questo molti Ambasciatori del Gusto stanno chiudendo le proprie valigie per partecipare in prima persona a questa terza Settimana della Cucina Italiana nel Mondo. A prepararle in anticipo Moreno Cedroni, già a Canton, in Cina, dove giovedì 15 sarà impegnato nella cena di gala al Four Season. Sempre in Cina, a Pechino, sarà impegnata anche Cristina Bowerman, che poi volerà a Miami. In Asia, tra Hong Kong e Tokyo, cucinerà il campano Luigi Nastri. A Mosca la promozione sarà affidata a un terzetto di Ambasciatori d’eccezione formato da Leandro Luppi, Paolo Griffa e dal gelatiere Stefano Guizzetti che terrà un “gelato show” al Caffè Bosco nello storico centro commerciale GUM in Piazza Rossa e preparerà un gelato italiano realizzato con ingredienti tradizionali russi. A Kiev, in Ucraina, cucinerà Eugenio Boer, nella turca Smirne Francesco Pucci. Alessandro Pipero con il suo nuovo chef Ciro Scardamella saranno in Israele mentre in Bolivia porteranno la cucina del nostro Paese Alfonso e Mariella Caputo.
Mariella Caruso
Gli Ambasciatori del Gusto premiati con Cristina Bowerman a Excellence 2018
Da sabato 10 a lunedì 12 novembre nello spazio Ex Dogana, nel quartiere di San Lorenzo a Roma, è in programma la sesta edizione di Excellence – Food Innovation. La manifestazione dedicata a innovazione, creatività, contaminazione e spettacolo rigorosamente nel segno del cibo, riunisce sotto lo stesso tetto chef, produttori d’eccellenza e operatori del settore per incentivare le relazioni, moltiplicare le possibilità di business.
In prima linea in questa edizione 2018, il cui taglio del nastro è coinciso venerdì sera con la cena-evento inaugurale, c’è anche l’Associazione Italiana Ambasciatori del Gusto che scende in campo con un proprio stand. Tutti gli Ambasciatori romani sono attesi nello spazio dell’Associazione. Tra questi ultimi Arcangelo Dandini e Gianfranco Pascucci saranno protagonisti di alcuni momenti di degustazione in collaborazione con gli studenti di sala della scuola Intrecci.
Agli show cooking e alle food experience come quella degli Ambasciatori del Gusto, grande spazio sarà destinato all’approfondimento culturale con un occhio di riguardo per l’avanguardia e l’innovazione e all’incontro tra operatori e buyer per permettere ai primi di allargare i propri orizzonti e ai secondi di conoscere nuovi prodotti potenzialmente interessanti.
IL “PREMIO EXCELLENCE”. A Cristina Bowerman, presidente dell’Associazione Italiana Ambasciatori del Gusto, è stato consegnato il Premio Excellence “Ricetta di Donna 2018” dedicato a differenti categorie di donne nel mondo dell’enogastronomia. “Per l’assoluto rigore in cui opera quotidianamente mantenendo costante l’eccellente livello nell’attività di chef imprenditore e per l’indiscutibile autorevolezza e il profondo impegno in qualità di presidente degli Ambasciatori del Gusto, associazione portavoce del gusto italiano nel mondo”, recita la motivazione dell’assegnazione.
E Cristina Bowerman non tradisce il suo impegno come “numero uno” dell’Associazione. Domenica 11, infatti, farà da moderatrice dell’incontro “Innovazione in sala” in programma alle 15,30 nella Sala Intrecci. Con lei al tavolo dialogheranno altre due Ambasciatrici, Mariella Organi, responsabile di sala alla “Madonnina del Pescatore” di Senigallia, Mariella Caputo maître e sommellier alla “Taverna del Capitano”, e Marta Cotarella, direttrice e co-fondatrice di Intrecci, scuola di alta formazione di sala. E, con la Cotarella, sarà inevitabile parlare di formazione, uno dei temi al centro dell’agenda dell’Associazione Italiana Ambasciatori del Gusto che lo scorso 29 ottobre è stato al centro del secondo convegno annuale Prima la formazione.
Mariella Caruso
Cristina Bowerman: «Facciamo rete per aiutare a formare nuovi professionisti»
La formazione prima di tutto, o Prima la Formazione, come è stato ben sintetizzato dal titolo scelto dall’Associazione Italiana Ambasciatori del Gusto per il suo secondo convegno annuale con l’obiettivo dichiarato di affrontare un tema vitale per il presente e il futuro della ristorazione: la formazione in ambito scolastico dei futuri professionisti del settore.
«È la prima volta che le principali associazioni di settore, le istituzioni e la scuola si confrontano insieme sul tema della formazione professionale alberghiera con l’obiettivo di domandarsi come il sistema educativo italiano possa fornire agli studenti le giuste professionalità per l’inserimento nel mondo del lavoro», ha chiarito senza giri di parole in apertura la presidente dell’associazione, Cristina Bowerman.
E le voci, talvolta accalorate e altre ferme e decise, e i commenti raccolti durante i numerosi interventi dal pubblico che ha visto in sala anche alcuni studenti, insieme alla pluralità dei punti di vista degli stakeholder presenti al tavolo dei relatori, hanno confermato che il tema è di quelli cruciali per il settore e non può più essere messo da parte. E soprattutto che deve essere affrontato stabilmente a più voci. A questo scopo l’Associazione Italiana Ambasciatori del Gusto ha istituito un tavolo permanente di lavoro dando appuntamento ad associazioni e istituzioni già all’inizio del 2019.
I LAVORI DEL CONVEGNO. I tre dibattiti moderati da Paolo Marchi, Eleonora Cozzella e Luca Govoni, focalizzati su “L’importanza della formazione”, “La scuola alberghiera oggi” e “Un’offerta formativa pronta alle professionalità del futuro”, sono serviti a portare al centro della discussione le criticità del settore e lo scollamento che esiste tra le competenze acquisite a scuola e le esigenze del mondo del lavoro. Ad aiutare hanno contribuito le risposte al questionario di dieci domande al quale tutti gli Ambasciatori del Gusto hanno risposto rappresentando «un quadro che, pur senza alcuna base scientifica – ha chiarito Bowerman – è indicativo dello stato dell’arte della formazione alberghiera in Italia». Una formazione che viene scelta, ha detto Fabrizio Proietti, dirigente del Miur, «da oltre 234 mila ragazzi, ovvero il 45% degli studenti che scelgono il percorso professionale, pari al 20% della popolazione scolastica che accede all’istruzione superiore attualmente formata da 2 milioni e 600mila». Sul banco degli imputati finiscono i programmi di studio che dovrebbero dare agli studenti le competenze determinate dai profili di uscita del nuovo indirizzo di studio “Enogastronomia e ospitalità alberghiera” codificato nel D. Lgs. 61/17. Bastano alcuni interventi dalla platea, cominciando da quello di Davide Oldani, chef del D’O di Cornaredo – «Aver trovato all’Olmo di Cornaredo come base di lavoro il ricettato di 30 anni fa mi ha spiazzato» – per comprendere che c’è molto da lavorare per adeguare le competenze alla realtà. Altra criticità emersa riguarda l’alternanza scuola-lavoro. Al di là del lessico («Infelice perché si dovrebbe parlare di alleanza scuola-lavoro», come spiega Proietti), da un parte ci sono i dirigenti come Rossana di Gennaro del Carlo Porta che chiede «una formazione continua, anche con un tutor, e la progettazione di percorsi di tirocinio che accrescano conoscenze e competenze che vadano oltre all’alternanza scuola-lavoro. Il compito della scuola – ha detto – è prendere i ragazzi, accoglierli e portarli avanti aiutandoli a costruire il loro percorso formativo». Dall’altra c’è il mondo della ristorazione che chiede studenti più preparati al mondo reale e, per questo, è disponibile a mettere a disposizione le proprie conoscenze. «L’alleanza con il mondo del lavoro è fondamentale», ha sottolineato Rossella Mengucci, dirigente scolastico distaccata al Miur.
FARE RETE. La migliore alleanza, però, passa dalla capacità di creare una rete tra associazioni di settore, mondo della scuola e istituzioni che è l’unica strada possibile da percorrere per far crescere la formazione alberghiera in Italia. Non è un caso che, per la prima volta, per discutere di questi argomenti l’Associazione Italiana Ambasciatori del Gusto ha chiesto la partecipazione della Federazione Italiana Cuochi, Noi di Sala, Charming Italian Chef, Le Soste, Jeunes Restaurateurs d’Europe e Les Grandes Tables du Monde. «Solo lavorando insieme, mettendo da parte l’individualismo, possono cambiare le cose», è la riflessione di Bowerman alla quale è stato dato corpo con questo primo incontro tra tutti gli stakeholder di un sistema importante per l’economia italiana. «Attorno al cibo si muove un complesso sistema economico. Se vogliamo che quest’ultimo possa affermarsi sempre più, occorre puntare sulla formazione non solo in termini d’investimento, ma anche di riconoscimento sociale – ha detto in apertura il vice sindaco di Milano, con delega alla Food Policy, Anna Scavuzzo – La formazione alberghiera non deve più essere (né deve essere percepita come) un refugio peccatorum. Deve essere chiaro che per lavorare in questo campo occorrono dedizione, assunzione di responsabilità, senso del dovere». E come ha sottolineato il sindaco di Milano Giuseppe Sala, in perfetta sintonia con gli Ambasciatori del Gusto, nel saluto iniziale, «fare rete è importante e Milano farà la sua parte».
Mariella Caruso
Aiutateci nell'aggiornamento dei docenti tecnici e d'indirizzo
La scuola da sola, oggi, può bastare a se stessa? La risposta è no e a testimoniarlo è l’alternanza scuola-lavoro che è diventata patrimonio della didattica italiana per far consolidare agli studenti le conoscenze acquisite in aula attraverso l’esperienza pratica. Un concetto che diventa molto più forte nella formazione alberghiera nella quale gli istituti italiani hanno compreso le potenzialità di fare rete fra di loro.
«È importante stringere accordi e sinergie perché la scuola da sola non può, soprattutto se ha una vocazione professionalizzante, riuscire a formare adeguatamente gli studenti come futuri operatori di settore», sottolinea, infatti, Annamaria Zilli, presidente Rete Nazionale Istituti Alberghieri (Re.Na.I.A.). «L’importanza di fare rete sta nelle potenzialità del mettersi insieme per andare a ricercare altri scenari e altre possibilità», dice la Zilli che è stata tra i relatori del convegno Prima la Formazione organizzato dall’Associazione Italiana Ambasciatori del Gusto.
È recente la firma del protocollo d’intesa “Adotta un Istituto Alberghiero” tra Re.Na.I.A. e Ambasciatori del Gusto. Come nasce?
«Condividiamo con l’Associazione una linea che va oltre gli accordi e la condivisione di pensieri, tanto che tra i progetti futuri ce ne sono alcuni da portare avanti nel breve periodo perché le scuole hanno bisogno di concretezza per evitare di cadere nell’autoreferenzialità e di flessibilità perché non ci si possono più permettere tempi molto lunghi, incompatibili con tutte le sollecitazioni che arrivano dal mondo della gastronomia».
I programmi di studio degli istituti alberghieri sono adeguati a queste sollecitazioni?
«Ormai i programmi non esistono quasi più, oggi il Miur codifica dei profili in uscita. Si tratta di ridisegnare i contenuti, costruire e progettare dei percorsi che aiutino gli studenti a costruire le competenze. Ovviamente occorre innovare anche da un punto di vista metodologico, guardare oltre ai libri di testo che devono essere una base. Mi sono trovata, di recente, a condividere con la platea di Food & Book una riflessione della presidente dell’Associazione Italiana Ambasciatori del Gusto Cristina Bowerman sull’importanza dell’Italia nel campo della gastronomia e, quindi, del privilegio di chi può fare formazione nel nostro Paese. Un valore che dovremmo tenerci ben stretto».
Come si possono progettare i percorsi didattici?
«Si può cominciare cogliendo quelle sfaccettature del mondo della gastronomia che ancora non hanno trovato nella scuola una loro collocazione. Un esempio potrebbe essere la cucina delle erbe spontanee, lo studio delle farine o le tematiche della cucina vegana o della cucina per i celiaci».
Questo potrebbe essere un trait d’union tra la scuola e le varie associazioni sul territorio, dagli Ambasciatori del Gusto in poi?
«Integrare la fase di studio con il confronto di chi è impegnato sul campo è sempre un arricchimento del percorso scolastico. In questo gli istituti alberghieri, per la loro natura, sono sempre molto ricettivi e aperti. Serve far crescere sistematicamente queste dinamiche che, al momento, sono di nicchia e vengono alimentate dalle relazioni personali».
Fare sistema in un panorama scolastico di “autonomia” come quello odierno è più facile o più complicato?
«L’autonomia scolastica c’è a livello di progettazione e di rapporti, esistono negli istituti comitati tecnico-scientifici ai quali partecipano i rappresentanti degli stakeholder esterni che possono dare un loro contributo fattivo. Ma la cornice di riferimento alla quale fare riferimento è stabilita dal Miur. Lo scorso anno, poi, il decreto legislativo 61/2017 ha riordinato i percorsi dell’istruzione professionale e stiamo aspettando le linee guide del Miur. Detto questo Re.Na.I.A. si spende molto affinché gli istituti alberghieri facciano sistema fra loro».
Su che progetto le piacerebbe lavorare nel prossimo futuro in ambito formazione?
«Penso che, al di là della formazione degli studenti, si dovrebbe pensare anche a un aggiornamento della formazione dei docenti tecnici e di indirizzo, di sala e di cucina. Anche in questo, come Re.Na.I.A., stiamo cercando di avviare delle collaborazioni nelle quali il rapporto con le Associazioni sarebbe molto importanti».