Il Mirazur di Mauro Colagreco sul tetto del mondo
Lì, in cima al numero uno della classifica dei 50 Best, dove un anno fa c’era Massimo Bottura con la sua Osteria Francescana, oggi c’è lo chef argentino Mauro Colagreco con il suo Mirazur a Mentone. Lo chef e Ambasciatore del Gusto modenese non è stato spodestato dalle preferenze dei votanti, ma da una delle nuove regole dell’ambìta classifica dei migliori ristoranti secondo la quale tutti gli ex numero uno vengono esclusi dalla singolar tenzone per accedere alla speciale sessione Best of the Best.
Questo, insieme alla rivoluzione dei panel delle nazioni votanti che da quest’edizione hanno il 50% di componente femminile, ha cambiato le carte in tavola. Nei primi 50 posti della nuova classifica sono due le insegne italiane, Piazza Duomo ad Alba dello chef Enrico Crippa al numero 29 (in discesa dalla 16esima), e Le Calandre dei Fratelli Alajmo al 31, anch’esso in discesa dal 23° posto del 2018. Fuori di un soffio l’Ambasciatore del Gusto Niko Romito e il suo Reale di Castel di Sangro al 51° posto. Il neo tristellato, anch’egli associato Adg, Mauro Uliassi è la più alta new entry al numero 61; il Lido 84 di un altro Adg, Riccardo Camanini, premio speciale “One to watch”, è 78°. Infine, al 116° posto, c’è un altro tristellato, anche lui un Adg, Norbert Niederkoflercon il suo St.Hubertus. È italiano, anche se cucina a Tokyo, Luca Fantin, altro Adg, che occupa il posto 107.
Come tutte le classifiche, anche quella dei 50 Best non è immune da critiche. «Siamo onesti, nessuno di noi quando è arrivato in vetta ha mai davvero pensato di essere il migliore del mondo, ha detto Daniel Humm, chef co-proprietario patron di Eleven Madison Park (anche lui finito nella speciale Best of the Best), qualche ora prima della cerimonia di premiazione. Ed è così che deve essere interpretata la classifica dei 50 Best che, mi piace sottolineare, è un grande sondaggio, il Pallone d’Oro della gastronomia mondiale. Non si tratta di fare una valutazione in base a criteri prestabiliti, ma soltanto di scegliere in base alle proprie preferenze», sottolinea Eleonora Cozzella, responsabile del panel italiano che assegna i voti nonché Ambasciatrice del Gusto benemerita. Panel la cui composizione è tenuta riservata. «Per me ovviamente non vale la regola dell’anonimato perché, in quanto chairwoman del panel, sono ufficialmente membro dell’Academy dei 50 Best – continua Cozzella -. L’assoluto anonimato è stato scelto per garantire ancora una maggiore garanzia a un sistema di voto che è certificato anche da Deloitte. Tutti i componenti del panel, che ogni anno viene rinnovato per 1/3, firmano un gentleman agreement attraverso il quale si impegnano a non comunicare la propria identità. In questo modo non si alimenta alcun sistema di favoritismi o di inviti ad arte».
IL PANEL. «Ogni panel è composto per 1/3 da food writer, per 1/3 da chef e ristoratori e per 1/3 da conclamati gourmet e da quest’anno il 50% dei componenti è femminile. Ogni componente ha a disposizione 10 voti (prima erano 7) di cui 6 da destinare a ristoranti del proprio Paese e 4 a ristoranti esteri», spiega ancora la giornalista. Che chiarisce: «È necessario sgombrare il campo da un equivoco di fondo: chi vota lo fa perché sta molto in giro, non va in giro perché è uno che vota». Poi ci sono le critiche al Premio alla migliore donna chef appena assegnato a Daniela Soto-Innes, che è anche socia del Cosme di Manhattan. «Si tratta di un riconoscimento che va ad aggiungersi agli altri perché, naturalmente, donne e uomini sono in lizza allo stesso modo nei 50 Best – fa notare -. Il fatto che le donne sono in minoranza nel sistema gastronomico mondiale non è soltanto un problema dei 50 Best».
IN ITALIA. «Da italiana sono convinta che il nostro Paese meriterebbe di avere una maggiore presenza nella lista dei 120 (dai 100 di un anno fa la lista è stata allungata per celebrare i 120 anni della San Pellegrino, ndr)», ammette. Il problema, se tale può considerarsi, «è la grande qualità della ristorazione italiana e la conseguente dispersione dei voti. La presenza di Bottura tra i Best of the best, di Crippa e i Fratelli Alajmo nei primi 50 è importante. E anche il 51° posto di Romito (36° un anno fa, ndr) non deve essere considerato un ridimensionamento in una competizione globale come questa che ha visto balzare un italiano come Camanini all’attenzione internazionale con il riconoscimento “One to watch”».
Mariella Caruso
Al Molino Quaglia l'obiettivo è consolidare la qualità
Già prima del 1913, anno in cui è ufficialmente fissata la fondazione del Molino Quaglia, il papà del capostipite Angelo Quaglia aveva dei molini. Ce lo rivela orgogliosamente Piero Gabrieli, direttore marketing dell’azienda di Vighizzolo d’Este, nonché parte integrante della famiglia che da oltre un secolo è sinonimo di qualità.
Com’è continuata la storia aziendale da quel 1913 in poi?
«Ad Angelo Quaglia subentrò il figlio Annito. Dal 1987 sono Chiara, Lucio e Andrea, figli di Annito e nipoti di Angelo, a occuparsi in pianta stabile di un’azienda che è rimasta di famiglia perché tutti i discendenti lavorano al suo interno con funzioni operative.
L’obiettivo principale, al momento, non è strutturare progetti di forte crescita di volumi di produzione, ma consolidare la qualità grazie all’aggiornamento tecnologico».
Qual è stata la genesi della nascita del marchio Petra che ha visto la luce nel 2006?
«All’interno di questa filosofia aziendale il progetto Petra ha, da un lato, lo scopo di dare una maggiore identificabilità alla farina che, nel tempo, è diventata un prodotto molto generico; dall’altro quello di creare una riconoscibilità attraverso un contenuto nutrizionale completo che già allora cominciava a essere una richiesta del consumatore contemporaneo che voleva già mangiare qualcosa che non lo facesse star male».
In questa ricerca della qualità siete stati dei precursori?
«Direi di sì perché in quel momento le farine, nella maggioranza dei casi, erano trattate come un prodotto da volume. L’obiettivo dei molini era produrre quantità sempre maggiori, spesso a discapito della qualità, perché il consumo di massa richiedeva quantità maggiori di cibo. Con Petra manteniamo la produzione su volumi abbastanza stabili, però miglioriamo la qualità».
Cosa intende quando parla di volumi stabili?
«Dal 1997 la nostra produzione è di 4mila quintali al giorno che è il nostro massimo risultato possibile. Al momento non sono in programma investimenti in nuove unità produttive».
Cos’è per voi la qualità?
«Avere rapporti con tutti coloro che intervengono nella filiera, dal contadino che semina fino all’artigiano che lavora le farine. Nel dettaglio vuol dire evitare di acquistare il grano in Borsa, comprarlo direttamente sul campo e selezionarlo climaticamente. Essendo il grano un prodotto le cui caratteristiche mutano di anno in anno a seconda del clima e del terreno, dovendo fare una farina naturale non è possibile per noi acquistare il grano sempre dagli stessi contadini. Questo è un concetto importante per il progetto Petra».
Voi avete una linea di farina macinata a pietra, ma non è detto che questa macinazione sia indice di qualità…
«È vero, ma la nostra non è una macinazione a pietra “tradizionale”. Intanto usiamo lo stesso impianto di selezione ottica del grano che utilizziamo per la macinazione a cilindri. Il grano che viene schiacciato con le pietre, infatti, deve essere incontaminato dal momento che, in questo tipo di lavorazione noi moliamo per schiacciamento anche le parti esterne del chicco. Poi passiamo la farina in un impianto industriale di omogeneizzazione della granulometria per aumentarne la facilità di lavorazione. Così facendo superiamo i due limiti della macinazione: la pulizia e la lavorabilità a mano».
Quante tipologie di farina producete?
«Abbiamo due famiglie: la macinata a pietra e la macinata a cilindri. All’interno di queste due tipologie ci sono altre “famiglie” che riguardano la classificazione del grano in convenzionale e biologico e/o a lotta integrata. Il nostro grano arriva per il 60% dall’Italia, il 35% da Paesi dell’Unione Europea e il 5% dall’Australia. Poi stiamo investendo nel progetto della coltivazione evolutiva in Sicilia portato avanti dall’Associazione Simènza. Si tratta di una metodologia di coltivazione di diversi tipi di semi, di cui solo i più forti sopravvivono, a quote molto alte che fa sì che le piante siano meno attaccabili dalle muffe. Di fatto invece di usare chimica o selezione genetica per avere del grano più forte, è la natura a fare la selezione naturale. Si tratta di farina con profumi che cambiano di anno in anno che si sta rivelando adatta a diversi tipi di lavorazione. Ovviamente i prodotti realizzati con Petra Evolutiva costano di più, ma a guadagnarci è la salute, il clima e la sostenibilità».
Perché avete scelto di essere partner di Ambasciatori del Gusto?
«È stata una decisione molto ponderata, ma siamo entrati con grande entusiasmo, perché abbiamo percepito la presenza di un gruppo animato dal desiderio di promuovere l’Italia stimolando la crescita di qualità nella filiera alimentare».
Mariella Caruso
Con AdG per conoscere il riso italiano
È l’ingrediente essenziale del risotto, piatto principe della cucina italiana, ma non per questo se ne sa abbastanza. «Del riso c’è bisogno di una maggiore conoscenza anche da parte dei professionisti dei fornelli», ha, infatti, ribadito Cristina Bowerman, presidente dell’Associazione Italiana degli Ambasciatori del Gusto nel giorno della firma del protocollo d’intesa con l’Ente Nazionale Risi per la valorizzazione del riso italiano.
L’invito è stato subito raccolto dal numero uno dell’Ente pubblico che si occupa della tutela del settore risicolo Paolo Carrà. All’opera con AdG per i workshop da calendarizzare «per conoscere meglio il riso a partire dalla produzione, perché più si conosce la materia, più è possibile utilizzarla con cognizione di causa», il presidente Carrà, risicoltore a Vercelli, sfata alcuni miti sulla graminacea d’origine asiatica. «Tanto per cominciare – attacca – il riso non è una pianta acquatica, ma una pianta che tollera i ristagni d’acqua utilizzati per evitare gli sbalzi termici che, nel periodo della fioritura, provocano l’interruzione della fecondazione e quindi la formazione del chicco».
DA COMMODITY A MATERIA PRIMA. Il riso, considerato una commodity in molti Paesi del mondo in cui risulta un accompagnamento dei piatti, in Europa ha una connotazione completamente diversa. «Culturalmente il riso è arrivato con gli arabi che ne introdussero l’uso in Sicilia – continua -. Inizialmente utilizzato come spezia ed elemento medicale per i problemi intestinali, viene fatto conoscere al Nord da Ludovico il Moro nell’area lombarda e dai monaci cistercensi per quella piemontese. È in queste due regioni che cambia la sua destinazione diventando materia prima per la preparazione di altri piatti».
IL RISO OGGI. Colazione, piatti pronti e cucina etnica. «Nel tempo anche in Italia l’utilizzo del riso sta seguendo nuove strade alimentate da mode gastronomiche come quella del sushi che hanno dato maggiore slancio alla sua produzione. A tutto questo – dice Carrà – si aggiungano gli utilizzi del riso come sottoprodotto per la produzione di farine e bevande».
LE SOTTOSPECIE DEL RISO. Il riso non è tutto uguale. Esistono delle grandi famiglie entro le quali è classificato. «C’è la sottospecie japonica alla quale appartengono le varietà coltivate a chicco tondo per le minestre e a chicco lungo destinato alla parboilizzazione, ai risotti e ai contorni», spiega. «L’altra sottospecie è la indica di cui fanno parte i risi a grana lunga, cristallini, che rilasciano poco amido e sono utilizzati per i contorni di cui l’Ue è deficitaria». Una nota a parte la meritano i risi colorati che, chiarisce Carrà, «sono risi semintegrali pigmentati di produzione italiana ricchi di antociani e flavonoidi che sono stati riconosciuti come antiossidanti utili per la salute». Infine ci sono i risi aromatici, quelli tipo Basmati (varietà che può essere coltivata soltanto in India e Pakistan), che rilasciano un particolare aroma e sono coltivati in Italia.
PRODUZIONE. L’Italia, con il suo 52% del totale, è il principale produttore di riso nell’Unione Europea, «ma il nostro è principalmente un mercato di esportazione al quale destiniamo il 60% del riso coltivato. Importiamo soltanto basmati e risi per la parboilizzazione, ma non risi tondi». Il motivo della centralità del riso italiano nel panorama europeo è da ricercarsi nella nostra posizione geografica. «Il territorio italiano è unico perché siamo al limite del 45° parallelo oltre il quale il riso non può essere coltivato. Quella settentrionale, quindi, è l’area limite e la risicoltura vi si è sviluppata grazie alla fitta rete irrigua. Ma – sottolinea ancora – l’acqua della camera di risaia non viene sprecata perché la conformità del terreno impermeabile fa sì che venga riutilizzata passando da camera a camera fino ad arrivare ai fiumi. In caso contrario non riusciremmo a coltivare 217mila ettari dislocate per il 92% tra Lombardia e Piemonte. Il restante 8% è suddiviso tra Veneto, Emilia, Sardegna e due piccole aree, una in Toscana e una in Calabria. Esiste anche un’area di coltivazione amatoriale in Sicilia».
IL RISO CLASSICO. Cosa significa l’aggettivo classico quando si parla di riso? «Secondo la nuova legge del mercato interno del riso (Decreto legislativo, 04/08/2017 n° 131, G.U. 07/09/2017) al quale deve rifarsi tutto il riso che viene trasformato e commercializzato in Italia, la definizione di classico sulla scatola indica che si tratta di un’unica varietà (Carnaroli, Arborio, Roma, Vialone nano, Ribe e Sant’Andrea) prodotta in Italia da risicoltori aderenti al sistema di tracciabilità varietale». Detto questo non si può dire che una «varietà di riso sia più pregiata di un’altra – chiarisce Carrà -. Tutto dipende dall’utilizzo che se ne fa: il Carnaroli, per esempio, è adatto al risotto perché tiene bene la cottura, mentre l’Arborio e il Vialone nano a cottura ultimata non ama rimanere troppo a lungo in pentola».
Mariella Caruso
L'Accademia Italiana della Cucina premia Antonella Clerici
Un anno fa era toccato all’Associazione Italiana Ambasciatori del Gusto, stavolta è Antonella Clerici a scrivere il suo nome nell’Albo d’Oro del premio Orio Vergani assegnato dall’Accademia Italiana della Cucina. A dire il vero il presidente dell’Accademia Paolo Petroni già da un po’ meditava di assegnare il premio Vergani, conferito ogni anno, dal 1984, a chi ha onorato la cultura gastronomica con la propria attività, in ogni campo, in Italia o all’estero, ad Antonella Clerici.
«Una donna», dice Petroni, che è anche un Ambasciatore del gusto onorario, «che ha contribuito alla crescita della cultura della cucina perché ne ha sempre parlato in maniera familiare, entrando nelle case con semplicità e buon gusto». Ma fino a ora l’Accademia, che Petroni rappresenta, aveva desistito a causa della presenza giornaliera in video della Clerici. «Siamo molto attenti a non fare pubblicità a questo o quell’altro programma», ha spiegato il numero uno dell’Accademia italiana della cucina che approfittando dell’addio della Clerici a La prova del cuoco ha insignito la conduttrice di Legnano del riconoscimento intitolato al fondatore dell’Accademia.
La motivazione parla chiaro: «Con la sua verve e la sua coinvolgente simpatia ha valorizzato e promosso la cucina italiana tradizionale. La giornalista ha portato la cucina in televisione con la conduzione per diciotto anni del programma televisivo di Rai Uno La Prova del Cuoco». «Trasmissione leggera è vero, ma attraverso cui si possono veicolare messaggi molto importanti», sottolinea la Clerici che davanti alle telecamere di Rai Uno ha portato i cuochi delle trattorie e quelli dei ristoranti, le eccellenze italiane e la cultura della cucina tradizionale. «Io sono più da trattoria che da ristorante stellato perché sono legata alla cucina del territorio e preferisco la scelta dei singoli piatti al menu degustazione – sorride -. Anche in cucina sono per i piatti tradizionali, sono brava a preparare le cose che mi piacciono come pasta al forno, risotti e faccio un vitel tonnè straordinario». Piatto quest’ultimo con il quale ha conquistato il suo compagno Vittorio Garrone.
Scelte alimentari. Televisione a parte, Antonella Clerici è una mamma molto attenta a decodificare la comunicazione, soprattutto sulle questioni alimentari. «In giovane età alcune scelte alimentari possono essere pericolose. Non ho nulla contro i regimi vegetariani magari non a 15 anni, ma onestamente – aggiunge – non riesco a capire quelli vegani perché con la salute non si scherza».
Il gusto che cambia. Da quell’osservatorio particolare de La prova del cuoco di cui ha tenuto le redini per 18 anni, poi, ha rilevato alcuni cambiamenti nel gusto. «Oggi si è più inclini alla curiosità gastronomica, specialmente i più giovani sono attratti dai nuovi sapori rispetto alle passate generazioni. Sta agli adulti far capire loro che, però, le tradizioni gastronomiche non devono essere dimenticate perché fanno parte delle radici – ammonisce -. Nello stesso momento, oltre all’attenzione per la cucina che ha fatto aumentare le iscrizioni agli istituti alberghieri, c’è anche un ritorno alla campagna, un’attenzione importante al mondo del biologico e questo è testimoniato dalla crescita anche degli istituti agrari».
Gusto italiano nel mondo. «Parlare di gusto italiano nel mondo è come parlare di lirica. Credo che nessun popolo come quello italiano possa, a ragion veduta, parlare di gusto e di cibo. Basta già vedere quanti ristoranti italiani ci sono nel mondo, magari non tutti di buon livello, per dare la misura di quanto la nostra cucina sia amata in ogni angolo della terra. Noi dovremmo essere gli ambasciatori di tutto questo». Poi, però, i concorsi gastronomici nel mondo vengono vinti da professionisti di altri paesi. «Ai concorsi e ai premi non credo molto – ribatte -. Io stessa vado a ritirare i riconoscimenti in rarissimi casi. L’ho fatto per il Premio Veronelli e per questo, intitolato a Orio Vergani. Credo che più che primeggiare nei concorsi sia importante puntare sulla qualità».
Mariella Caruso
I nuovi migliori talenti secondo gli Ambasciatori del Gusto
Sono dieci i nuovi ristoranti tra quelli aperti nel 2018 che meritano senz’altro di essere conosciuti. A metterli sugli scudi sono stati direttamente i clienti che li hanno votati in occasione della seconda edizione del The Fork Restaurant Awards. A segnalare i ristoranti sottoposti al giudizio del pubblico in corsa per gli Awards, sono stati 71 chef selezionati da Identità Golose, partner del sito internazionale di prenotazioni nell’organizzazione degli Awards. Tra questi 71 professionisti dei fornelli gli Ambasciatori del Gusto hanno fatto da promotori di otto delle nuove insegne su 10. Il loro impegno negli Awards è stata un’azione perfettamente in linea con il primo obiettivo dell’Associazione il cui scopo principale è il rafforzamento e la valorizzazione della cultura agroalimentare ed enogastronomica italiana. E quale migliore valorizzazione del riconoscimento del talento di chi s’impegna con serietà per offrire qualità in tavola in nome del Made in Italy come tutti i giorni fanno gli stessi Ambasciatori del Gusto, modello per moltissime delle giovani leve del mondo dell’enogastronomia e dell’eccellenza italiana?
Ad Andrea Berton e Antonino Cannavacciuolo, tra i soci fondatori dell’Associazione Italiana Ambasciatori del Gusto, si deve la segnalazione del ristorante L’Alchimia di Alberto Tasinato. L’ex restaurant manager del Seta di Antonio Guida insieme al sous chef di Luciano Monosilio ai tempi di Pipero e al bar manager Valerio Trentani hanno dato vita al locale milanese vincitore assoluto degli Awards di The Fork per aver reso accessibile a tutti l’alta ristorazione.
Tra gli altri premiati il ristorante romano Zia Restaurant di Antonio Ziantoni messo in corsa da Anthony Genovese, altro socio fondatore degli Ambasciatori del Gusto. Ancora a Roma Seu Pizza Illuminati di Daniele Seu ha avuto la benedizione dall’Ambasciatore Gianfranco Pascucci e Rimessa Roscioli di Tommaso Roscioli è stato segnalato dall’Ambasciatore Roy Caceres. Ugo Alciati, Ambasciatore del Gusto sin dalla prima ora, ha dato il suo gradimento a Sestogusto, nuova pizzeria torinese di Massimiliano Prete, maestro pizzaiolo che più recentemente ha sposato anch’egli la filosofia dell’Associazione. Così come sono Ambasciatori i fratelli Francesco & Salvatore Salvo, pizzaioli di San Giorgio a Cremano con l’insegna che riporta i loro nomi, il cui riconoscimento agli Awards è arrivato direttamente da The Fork grazie alla segnalazione di Pietro Leemann. A completare la squadra degli Ambasciatori del Gusto sono Antonello Colonna, padrone di casa dell’Open del Palazzo delle Esposizioni di Roma dove si è svolta la cerimonia di premiazione, che ha segnalato Luciano Monosilio e il suo nuovo progetto di cucina democratica Luciano Cucina Italiana e Moreno Cedroni innamoratosi della cucina di Federico Zanasi del Condividere di Torino. Colonna, Cedroni e la presidente degli Ambasciatori del Gusto, Cristina Bowerman, hanno portato anche la loro visione della cucina italiana preparando una cena superlativa per tutti gli ospiti del The Fork Restaurant Awards.
Mariella Caruso