La pizza moderna cambia con le stagioni
C’era una volta la “Quattro stagioni”. E in buona parte delle pizzerie italiane c’è ancora. Ma nell’enogastronomia del nostro Paese anche la cultura della pizza sta cambiando. Grazie a pizzaioli d’eccellenza che curano la pasta e rispettano e valorizzano le materie prime, anche la pizza, uno tra i piatti che identificano univocamente l’Italia, sta vivendo un periodo di grandi trasformazioni. Ai pizzaioli Ambasciatori del Gusto abbiamo chiesto se anche la pizza deve essere considerata a pieno titolo un piatto cui gli ingredienti devono cambiare al cambiare delle stagioni.
Fratelli Borgia – Biosserì Milano
Siamo convinti che la stagionalità sia un fattore fondamentale anche nella pizza, perché ormai questa pietanza deve essere equiparata a un qualsiasi altro piatto di cucina. Questo è il motivo per cui abbiamo deciso di proporre pizze di qualità insieme ai piatti del nostro menù. La nostra filosofia è quella di seguire il ritmo della terra e quindi la stagionalità delle materie prime. Lo facciamo per ognuno dei piatti della nostra carta e naturalmente anche nella manifattura di tutte le nostre pizze perché crediamo fortemente che la nostra alimentazione debba seguire le stagioni della terra che deve essere trattata con rispetto. Quindi il nostro menù cambia ogni tre-quattro mesi anche nella sezione “Pizze”.
Renato Bosco – Saporè, San Martino Buon Albergo (Verona)
Assolutamente sì. La pizza è un piatto stagionale. Per quanto riguarda le farciture da sempre propongo un menù di stagione: anzi è proprio la natura che detta legge nel mio menù. Arriva il periodo degli agretti, quello delle zucche, delle puntarelle, del radicchio ed ogni ingrediente diventa il punto cardine su cui creare l’abbinamento più creativo o sfizioso. Diciamo che come negli impasti continuo senza sosta la ricerca per offrire qualcosa di diverso, salubre, gustoso e che possa andare incontro sempre di più alle esigenze del cliente, anche la stagionalità mi offre molti stimoli per rinnovare il menù. Un caso esplicativo è quello della parmigiana di melanzane (nella foto). Quando arriva la stagione estiva, le melanzane sono molto richieste. La preparazione risulta molto leggera e forse è questa la chiave che le fa amare particolarmente ai miei clienti. Abbiamo la fortuna di vivere in un territorio ricco di moltissime varietà di verdure, saperne cogliere le peculiarità, cucinarle esaltandole e abbinarle con altrettanti prodotti tra le eccellenze italiane, credo sia quasi un dovere.
Enzo Coccia – La Notizia, Napoli
La pizza può considerarsi un piatto stagionale perché è diventata un piatto culinario a tutti gli effetti. Negli ultimi dieci anni, la pizza è diventata un piatto unico della ristorazione italiana, abbiamo assistito a un vero e proprio superamento culturale che, oltre alla tradizione (con la Margherita, la Marinara e il Ripieno), considera la pizza un piatto vero e proprio, anche dal punto di vista nutrizionale. Come tale dunque c’è una stagionalità nella scelta degli ingredienti e delle verdure come viene fatto nel mio locale.
Francesco e Salvatore Salvo – Fort Knox, San Giorgio a Cremano (Napoli)
Ci accorgiamo del cambio delle stagioni principalmente dal cambio dei colori dei prodotti della terra. Ogni stagione è ricca di prodotti diversi, amiamo osservare questa biodiversità che in Campania raggiunge una complessità elevatissima.
Tutte le nostre pizze stagionali vengono pensate per variare di frequente, qualcuna resta in carta solo un paio di settimane. Interpretiamo in pizzeria le stagioni così come le vive l’orto, credendo impossibile parlare di stagionalità con una pizza in carta per tre mesi. Discorso che approfondiamo ulteriormente con le nostre “Pizze del giorno” il cui intento è valorizzare ingrediente particolari prodotti in piccolissime quantità, unici e rari, frutto di storie di tenacia e rispetto del territorio di piccoli produttori. Sintesi perfetta di questi discorsi è la nostra Ortolana che cambia ripetutamente durante tutto l’arco dell’anno in funzione del pieno rispetto della disponibilità di materia prima di stagione.
Simone Padoan – I tigli, San Bonifacio (Verona)
C’è un nuovo modo di interpretare la pizza. Al di là dell’immaginario comune della pizza napoletana, nel tempo si è cercato di dare spazio alla propria creatività e al proprio territorio. È inevitabile, quindi, partendo dal concetto base di unire una base lievitata sulla quale mettere ingredienti freschi che anche la preparazione della pizza sia dettata dal concetto di stagionalità. È vero che in una Margherita si usa la passata di pomodoro che è un ingrediente che si conserva per poterlo consumare tutto il resto dell’anno. Nella mia cucina, però, utilizzo soltanto materie prime fresche, pomodoro compreso che trasformiamo e conserviamo in stagione ricorrendo a tecniche moderne. La stagionalità è anche nelle verdure che utilizzo in consistenze differenti per dare al mio prodotto una connotazione ben precisa. Il nostro menù, per questo, cambia quattro volte all’anno e viene arricchito con pizze fuori carta quando ci sono a disposizione materie prime stagionali particolari. Non so se questo movimento sia destinato a diventare tradizione, ma mi piace pensare che tutto debba essere dettato dall’etica. Io faccio ciò che ritengo sia giusto indipendentemente dalle mode: sarà la gente, poi, a stabilire se tutto questo durerà e in quel momento sapremo se questo diventerà tradizione.
Franco Pepe – Pepe in grani, Caiazzo (Caserta)
Nel menù di una pizzeria, anche di quelle che si spingono molto in là, c’è sempre uno spazio dedicato alle “classiche”, pizze che fanno riferimento a materie prime che possono essere conservate. Grande importanza, però, hanno anche le pizze stagionali. Personalmente interpreto molto il territorio, la mia pizza avverte ogni variazione della stagionalità. Modificare spesso il menù è importante, in Franciacorta dove sto seguendo un progetto, a settembre cambierò sei pizze. Le variazioni della carta sono importanti anche per la creatività del pizzaiolo, se spegniamo la nostra inventiva muore anche il nostro progetto. Per me diversificare significa far scoprire sapori nuovi ed essere gratificato per aver regalato una nuova esperienza. Inoltre se riuscissimo a far questo comunicheremmo al cliente la freschezza degli ingredienti. È importante anche per chi lavora in sala comunicare al cliente ogni proposta, anche quelle fuori carta.
Mariella Caruso
In Italia deve crescere la cultura del riso
Dal prossimo 16 febbraio scegliere il riso sarà più facile per i consumatori italiani. Da quella data, infatti, per il riso venduto in Italia entrerà in vigore, in via sperimentale, l’obbligo di indicazione dell’origine in etichettatura voluto dal Ministero delle Politiche agricole alimentari e forestali. Dovrà essere indicato specificatamente sarà se il Paese di coltivazione, quello di lavorazione e di confezionamento sono Italia, Paesi dell’Unione Europea o extra Unione Europea.
Un aiuto valido anche per i ristoratori che, però, in molti casi hanno già dei criteri di scelta molto rigidi per la scelta del riso da utilizzare per i propri piatti.
QUALITÀ – «La qualità si fa nel campo, per questo io vado personalmente a conoscere ogni fornitore. L’ho fatto anche per il mio fornitore di riso», sottolinea l’Ambasciatore del Gusto Cesare Battisti, chef a Milano dove il piatto simbolo è il risotto alla milanese con ossobuco. «In Italia abbiamo una vastità di risi autoctoni, la nostra biodiversità in fatto di riso è pazzesca. Anche i piatti a base di riso sono tanti e per prepararli, da Nord a Sud, si utilizzano varietà diverse: dal vialone nano per il riso alla Pilota del Mantovano che deve rimanere sgranato al Carnaroli che, personalmente, utilizzo per il risotto alla Milanese perché ha una percentuale di amido superiore al 20% e mantiene la cottura». Ovviamente la visione dello chef è diversa da quella del consumatore medio. «La gente non fa caso ai chicchi spezzati. La loro assenza, per esempio, è indice di qualità. Noi cuochi abbiamo una responsabilità sociale nei confronti dell’agroalimentare italiano di qualità, dobbiamo informare e rendere consapevoli i nostri clienti del valore dei prodotti, riso compreso», continua Battisti. Riso che, spiega, «è possibile riconoscere anche dall’aroma: se annusando un pacchetto appena aperto si sprigiona un odore sgradevole è un brutto segnale: è possibile che il riso abbia residui di paraffine e colle dell’asciugatura a gasolio; se prendendo in mano un pugno di riso la mano rimane bianca vuol dire che c’è presenza di farina di riso che, di solito, viene utilizzata per far fronte alle microfratture dovuto a una centrifugatura troppo veloce».
CULTURA – «È la qualità e la diversità che distingue il riso italiano dagli altri», affermano senza mezzi termini anche gli Ambasciatori del Gusto Manuel e Christian Costardi, vercellesi che hanno fatto del risotto al pomodoro uno dei loro piatti simbolo. «Purtroppo nel mondo dei risicoltori non c’è stato ancora quel passaggio dall’essere agricoltori a diventare imprenditori. Dovrebbero essere loro a spiegare cosa mettono nel pacchetto, spiegare le caratteristiche del riso, perché uno è diverso da un altro», continuano i Costardi Bros. Il consiglio dei Costardi per capire la qualità del riso è «cuocerne un pugno senza sale e assaggiarlo. Per noi – spiegano – è un test fondamentale che facciamo una volta al mese per scegliere il nostro riso che, è bene ricordare, è vivo e non si lavora con il cronometro: il riso di un sacchetto aperto è diverso se si utilizza l’indomani». Poi i Costardi lanciano un appello. «In Italia deve crescere la cultura del riso. Il risotto, al pari di pasta e pizza, potrebbe essere un piatto rappresentativo del nostro Paese. In questo, però, serve un altro atteggiamento da parte dei ristoratori che dovrebbero cominciare a togliere il “minimo per due” dai loro risotti in carta.
Mariella Caruso
"Ristoranti contro la fame": 2 euro per combattere la malnutrizione
«Servono 28 euro per aiutare un bambino malnutrito con un trattamento completo di otto settimane con cibo terapeutico pronto all’uso», racconta Licia Casamassima. Responsabile High Value Partnership di “Azione contro la fame” sin dal 2014, anno della fondazione della sua costola italiana, per il terzo anno di fila Licia Casamassima si sta occupando della campagna “Ristoranti contro la fame”. «È una campagna di Azione contro la fame, che coinvolge ristoranti, chef e food lovers per regalare la gioia del cibo a tanti bambini nel mondo – spiega – Si tratta di un’azione di raccolta fondi che va ad implementare direttamente i nostri interventi mirati a diagnosticare, curare e prevenire la malnutrizione».
NON SOLO PASTI TERAPEUTICI. Anche se la malnutrizione non colpisce soltanto i bambini è verso di loro che gli interventi di “Azione contro la fame” si focalizzano. «Combattere la fame non basta – puntualizza – bisogna agire sulle cause e quindi occuparsi di accesso all’acqua, di igiene e sicurezza alimentare: i nostri programmi coinvolgono più di 14 milioni di persone l’anno».
LA CAMPAGNA. «Chiediamo ai clienti dei ristoranti aderenti alla campagna di aggiungere una donazione al proprio conto proponendo di sommare 2 euro – continua – naturalmente ognuno può decidere l’entità del contributo. Inoltre chiediamo agli chef aderenti di scegliere un piatto solidale e di versare 2 euro per ogni ordinazione». Nei primi due anni di campagna italiana di “Ristoranti contro la fame” sono stati raccolti 100.000 euro, «quest’anno cercheremo di superare questa somma». Come? «Intanto cercando di coinvolgere sempre più ristoranti nella campagna, poi allargandola anche ai Maestri pizzaioli che s’impegneranno anche loro contro la fame», dice soddisfatta Casamassima decisa a far diventare “Ristorante contro la fame” un’iniziativa di successo come lo è nei Paesi da cui è stata importata per portare aiuti ai bambini e alle loro mamme in 50 Paesi nel mondo. «Ambiamo – sottolinea con convinzione – a fare diventare la più grande campagna di raccolta fondi contro la fame in Italia. Intanto in questa terza edizione vorremmo arrivare almeno a 200». L’inizio di “Ristoranti contro la fame” è fissato per il 16 ottobre, giorno del World Food Day, e si concluderà il 31 dicembre. Per i ristoranti stagionali (e per chi volesse), però, c’è un’appendice estiva, la Special Summer Edition, che si concluderà il 15 settembre.
Mariella Caruso
Roberto Petza lancia “Le stelle in Marmilla” per divulgare e proteggere i prodotti della Sardegna
Roberto Petza è sardo dai capelli ai piedi e adora la sua isola come solo un sardo può fare. Ce l’ha nel sangue e guardandosi intorno nella sua piccola regione (che spesso neanche i sardi conoscono), si rende conto che agire ora è fondamentale.
Educare, divulgare e proteggere sono diventati una necessità. Ed è per questo che durante il “Terre di Villanovaforru“, organizzata da questo piccolo Comune di appena 626 anime con le associazioni locali e il ristorante di Siddi “S’Apposentu“, Roberto Petza ha lanciato il suo programma Le stelle in Marmilla.
Una rassegna di nomi importanti che vanno a sperimentare i prodotti sardi e poi presentati in una cena più mani al S’Apposentu. Full house per la prima sera con il -quasi- Ambasciatore Giancarlo Morelli e Cristina Bowerman.
Una cena a 6 mani in cui pecora, capra, ricotta, mandorle, palamita e trippa l’hanno fatta da padroni.
Arricchita da vini rigorosamente sardi, la cena è stata un successo ed é la prova che i cuochi possono fare molto per preservare la tradizione e proteggere la biodiversità di cui tutti parlano ma ancora troppo pochi fanno qualcosa.
I prossimi appuntamenti vedono ospiti del calibro di Carlo Cracco, Claudio Sadler, Viviana Varese e tanti altri.
Risicoltura Italiana in crisi, in aiuto arriva la nuova etichettatura introdotta dal Mipaaf
«Non è un momento semplice per il riso italiano». Non usa eufemismi Dino Massignani, anima a Gropello Cairoli, nel Parco del Ticino, della produzione risicola d’eccellenza di Riserva San Massimo. A mettere in pericolo il comparto della risicoltura italiana c’è l’invasione dei risi dall’Est Europa e dal Sud Est asiatico che ha fatto abbassare il prezzo del cereale «sotto il costo di produzione: in due anni il Carnaroli è passato dai 100 euro al quintale ai 35 attuali», come fa osservare Massignani. Poi c’è stato da respingere l’attacco alla denominazione Carnaroli. Solo all’inizio di luglio l’Ente Nazionale Risi è riuscito a impedire la registrazione, a livello europeo, del marchio Carnaroli da parte di un privato che voleva utilizzarlo per riso, torte di riso, snack a base di riso, cereali in chicchi non lavorati, riso non lavorato e servizi di ristorazione. E anche se, da pochi giorni, è entrato in vigore in Italia il provvedimento del Mipaaf che introduce l’obbligo di indicare in etichetta il paese di coltivazione, di lavorazione e di confezionamento del riso la strada è decisamente in salita.
«Da altri Stati arrivano in Italia risi, in particolare fini e lunghi, che saturano l’offerta con materia prima a prezzi con i quali i produttori italiani, alle prese con una maggiore tassazione, obblighi in materia di deflusso, maggiori costi dei mezzi di produzione come acqua, mezzi, affitto dei terreni, non possono competere. A far crollare ancora di più il prezzo è l’ampia disponibilità di varietà come Vialone nano, Carnaroli, Roma perché l’Italia è il maggior produttore europeo e buona parte dei risicoltori per far fronte ai problemi hanno puntato sull’aumento della produzione e, forse, troppo poco sulla qualità», spiega Massignani.
QUALITA’ E NON QUANTITA’ – «Il riso che arriva dall’estero è coltivato con prodotti chimici diversi da quelli italiani e come è noto nel Sud Est Asiatico non brillano per sensibilità sulla tutela di ambiente e cibo – continua Massignani -. Anche in Europa, inoltre, non c’è uniformità delle normative: questo vale sia per le coltivazioni bio, sia per quelle convenzionali. Poi bisogna ricordare che la struttura del chicco cambia a seconda della zona di coltivazione, del tipo di concimazione e di essicazione: a Riserva San Massimo, per esempio, oltre la coltivazione in organico naturale essicchiamo a gas perché il gasolio espone il chicco a paraffine, metalli pesanti cambiando l’aroma del prodotto». E la qualità paga: «Nel mese di giugno – dice Massignani -, che non è il periodo migliore per i risotti, abbiamo registrato un grandissimo incremento di vendite rispetto allo stesso periodo del 2016. Quindi consiglierei di acquistare sempre da chi dimostra sensibilità nel tutelare la propria terra tutelando la biodiversità del suo luogo di lavoro perché sicuramente il cibo che proporrà sarà migliore di chi non se ne cura».
LA SCELTA DELLO CHEF – Per uno chef, un cuoco, un oste la scelta del riso da mettere nel piatto non è solo una questione di fiducia nel produttore, ma anche di che tipo di piatto vuole preparare. «Ognuno, naturalmente, può utilizzare il riso che vuole sia esso di un piccolo produttore sia di una multinazionale che glielo fornisce gratis – conclude -. Ma penso che si debba avere anche il coraggio di dichiarare quale si utilizza. Oggi sempre più chef della nuova generazione lo fanno perché è bene che ogni cliente sappia cosa trova nel piatto».
Mariella Caruso