Il cuoco-imprenditore si formerà all'Università

C’è l’istituzione di un corso di laurea dedicato alla formazione di una figura accademica professionale in ambito enogastronomico-manageriale al centro della convenzione appena siglata tra l’Associazione Italiana Ambasciatori del Gusto e l’Università LUM Jean Monnet di Bari. Un progetto innovativo in linea con l’evoluzione di una professione che, come sottolinea la presidente dell’Associazione Cristina Bowerman forte sia della laurea in Giurisprudenza sia di quella in Arte Culinaria conseguita alla Culinary Academy di Austin in Texas, «non è solo spadellamento». Tanti cuochi, oggi, sono imprenditori in un settore strategico per il tessuto economico e produttivo dell’economia italiana. Ma, al momento, come sottolinea Bowerman, «il turn over professionale tra i cuochi è altissimo e, a fronte delle nuove aperture si moltiplicano le chiusure di attività ristorative. Il motivo? Le scarse competenze e professionalità, sia strettamente legate alle materie prime sia di natura giuridica ed economica, oggi necessarie per gestire un’attività duratura».

A testimoniare la tendenza ci sono i dati. «Negli ultimi tre anni hanno avviato l’attività 40.000 imprese, mentre 71.000 l’hanno cessata, con un saldo negativo per oltre 31.000 unità», illustra Gianluca De Cristofaro, responsabile tecnico scientifico e delle relazioni esterne e istituzionali degli Ambasciatori del Gusto. «Per affrontare al meglio l’organizzazione imprenditoriale un cuoco-imprenditore, oggi – continua De Cristofaro – oltre alle conoscenze legate alla cucina deve avere conoscenze di gestione economica e delle risorse umane, di public speaking e altre che attengono specificatamente alle materie prime».

Tutte queste conoscenze saranno parte integrante del corso di laurea specifico, diverso dai percorsi in Scienze gastronomiche recentemente istituiti in vari atenei. Il corso di laurea sarà avviato all’Università LUM dopo l’ottenimento del riconoscimento del corso di laurea da parte del Miur. «Il primo passo è la costituzione del comitato scientifico per la definizione del piano di studi del quale faranno parte, oltre ai rappresentanti dell’Associazione Italiana Ambasciatori del Gusto e della LUM anche i portatori d’interesse del territorio». Territorio che è quello del Sud. «Nonostante il ritardo che sconta, il Sud – continua – è un distretto che annovera eccellenze, connotato da un forte legame con gli operatori del settore e tanta voglia di riscatto».

«Il settore della ristorazione di qualità costituisce uno dei traini dell’offerta attrattiva nazionale. Per questo – commenta Emanuele Degennaro che da Rettore dell’Università Lum Jean Monnet ha apposto la firma sulla convenzione con l’Associazione Italiana Ambasciatori del Gusto – è ineludibile l’esigenza di creare professionalità in grado di saper gestire realtà imprenditoriali complesse come quelle legate alla ristorazione di qualità».

«Questo progetto – conclude la presidente degli Ambasciatori del Gusto – sancisce definitivamente la direzione dell’Associazione che non si occupa di organizzare cene. Il nostro intento, infatti, è quello di lavorare per il settore a livello normativo, della valorizzazione e della formazione dello chef imprenditore. Per questo la firma di questa convenzione è un mattone importantissimo, uno scatto fondamentale per il futuro».

Mariella Caruso


Cristina Bowerman: «Rendere il gusto italiano riconoscibile nel mondo»

Giornalisti, blogger, influencer, instagrammer e storyteller ai quali si aggiungono chef, pasticcieri e gourmet. Sono tanti gli iscritti al club dei raccontatori del cibo in Italia. Un Paese, il nostro, dove tutti, un po’ come accade da sempre nel calcio, si sentono autorizzati a dire la propria. Non è facile, però, raccontare la cucina italiana e il suo infinito patrimonio di cultura e di diversità. A fare il punto sullo stato di salute del giornalismo alimentare di casa nostra, è da qualche anno il Festival del Giornalismo Alimentare, interamente dedicato ai temi dell’informazione e della comunicazione alimentare la cui ultima edizione si è svolta dal 21 al 22 febbraio a Torino.

NETWORKING. E siccome «la grande cucina italiana è un patrimonio che ha bisogno di ambasciatori» non poteva mancare, tra i 32 panel che hanno coinvolto 130 relatori, l’intervento degli Ambasciatori del Gusto. «Un’associazione inclusiva della quale non fanno parte solo chef, cuochi, panificatori, pasticcieri, operatori dell’enogastronomia ma anche scienziati, giornalisti, professori che crede nel networking – ha esordito la presidente dell’Associazione Cristina Bowerman intervistata dal giornalista di La Repubblica Marco Trabucco – e vuole aiutare la cucina italiana in tutti i campi».

IL GUSTO ITALIANO. «Formazione ed educazione sono alla base della crescita del gusto italiano, nel nostro Paese e all’estero. Ma allo stesso tempo definire la cucina italiana in punti, siano essi dieci o di più, è impossibile perché le nostre tradizioni sono troppe vaste», ha osservato la numero uno degli Ambasciatori del Gusto. La strada da seguire, invece, «potrebbe essere quella di creare un profilo del gusto italiano che sia riconoscibile da tutti e contribuisca alla crescita sistemica della nostra cucina nel mondo».

I CONSORZI. In questo sistema di crescita devono trovare posto anche le produzioni tipiche e i Consorzi che possono favorire l’accesso dei cuochi ai prodotti d’eccellenza. «Il grande problema della materia prima italiana è riuscire a dare la possibilità a cuochi e chef che non vivono nei pressi dei luoghi di produzione di accedere a prodotti d’eccellenza – ha sottolineato la chef pugliese -. Ci sono molti chef che fanno sforzi immani per approvvigionarsi delle materie prime, ma ancora l’80% dei prodotti che finiscono nelle cucine vengono venduti nei mercati generali».

FARE SISTEMA. Come è possibile farlo? «Riuscendo a creare per i piatti della nostra cucina un sistema, un codice, una definizione che li identifichi come italiani», spiega. L’esempio utilizzato da Cristina Bowerman è stato quello del risotto, «il risultato di una tecnica di cottura strettamente italiana tanto che, anche quando si parla di pasta o di altri cereali risottati si attiene alla nostra tradizione. Il grande passo da compiere è fare riconoscere tutto questo anche all’estero». A dare una mano possono essere anche eventi globali come la Settimana della cucina italiana nel mondo. «Nella prima riunione al Ministero in preparazione della 4a edizione come Ambasciatori abbiamo proposto di sviluppare monotemi giornalieri uguali in tutto il mondo per aumentare la capacità d’impatto».

LA FORMAZIONE. Per aumentare la conoscenza, però, serve molta formazione. «Il cuoco non è più solo qualcuno che cucina, è un imprenditore che deve pure far quadrare i conti. Lo scatto dal lavoro manuale a professionale in Italia, però, non è stato fatto in maniera programmata. Mentre ognuno, in ordine sparso, cercava di trovare la sua strada, la figura del cuoco è cambiata radicalmente», fa riflettere la chef che si è formata in Texas dove, racconta, «insieme alla cucina ho studiato, tra gli altri, public speaking, psicologia, economia». Per questo l’Associazione Italiana Ambasciatori del Gusto ritiene «l’educazione fondamentale, la base della crescita del gusto italiano, nel nostro Paese e all’estero. Ed è necessario – ha sottolineato la presidente – formare gli insegnanti ancor prima degli studenti. Fare Formazione è il nostro grande progetto che, cominciato con l’istituto professionale di Amatrice, prosegue attraverso un protocollo d’intesa firmato con Renaia attraverso il quale offriamo corsi d’aggiornamento anche ai formatori perché, com’è vero che gli studenti hanno bisogno di role model, gli insegnanti sono il loro primo riferimento».

Mariella Caruso


Come internet ha cambiato la ristorazione

C’era una volta il telefono per prenotare e c’erano, per conoscere i posti e ogni dato utile, i biglietti da visita, le guide, i giornali e le Pagine Gialle. Oggi molte di queste cose sono state ridimensionate dall’avvento di internet, dei siti e dei social.

È indubbio che esista una dicotomia tra il buono e il cattivo utilizzo del web in ambito ristorativo. Così come non esiste dubbio sul fatto che internet, il mondo della ristorazione, l’abbia cambiato alla radice. Una sorta di piccolo Rinascimento dove improvvisamente utenti e ristoratori hanno fatto squadra. Per creare delle isole di informazioni. Per tutelarsi. Per correggere laddove prima non fosse possibile solo attraverso una cornetta.

Recensioni online, social network e prenotazioni dai siti sono le tre macrocategorie. Se i primi due sono ormai strumenti irrinunciabili per chi fruisce e chi offre, il caso delle prenotazioni online è ancora territorio da scoprire per una buona parte degli italiani.

I telefoni che c’erano, ci sono ancora. Certo, sono combinati con un numero cliccabile su una pagina Facebook, ma una chiamata è ancora la modalità principe degli italiani che vogliono cenare o pranzare fuori casa. E questo vale a tutti i livelli: dalla frequentata trattoria ai ristoranti gourmet, a tutti quelli che offrono cucina di qualità.

Si parla di prenotazioni online come territorio inesplorato perché sono di sicuro, tra le categorie citate, quelle più malleabili. I nuovi siti web permettono di inviare una prenotazione in maniera semplice -ma non ancora così semplice come una chiamata-; alcuni portali permettono di ricevere uno sconto sul conto finale nel caso in cui si riservi un tavolo con loro; e poi c’è una nuova generazione di locali come può essere Trippa a Milano, che gestisce la prenotazione dei tavoli attraverso Whatsapp.

Il fenomeno di portali che promettono piccoli sconti sulla cena è interessante perché emblema di un qualcosa preposto alla sola era di internet. Ampiamente sfruttato all’estero, dove i ristoratori aderiscono con piacere in una nuova/vecchia forma di marketing, si sta facendo sempre più largo nel cuore degli italiani.

In alcuni casi internet è ormai strumento indispensabile non tanto per prenotare, quanto per accogliere.

Tralasciando il dibattito su un possibile favoritismo dettato dalle regole di Google e dal numero dei follower, cercare il nome di una prenotazione serve moltissimo alla sala per dare al cliente una coccola di più. Un’accoglienza di livello superiore, su misura.

Alessandro Pipero, padrone di casa del ristorante Pipero in pieno centro a Roma, noto per le sue idee sospese tra genio, rivoluzione e rottura dei modelli classici, ha anche in questo campo adottato delle misure sulle prenotazioni fuori dagli schemi. Ed efficaci.

Per accogliere in casa propria il cliente e per arginare il problema delle prenotazioni fantasma, quelle in cui non si presenta nessuno e rimane un tavolo occupato inutilmente. Il cosiddetto ‘No Show’.

“Avere un tavolo occupato senza che i clienti si presentino è un problema. Lo è per tutti. Sono, volente o nolente, molti soldi che non entrano in una serata”, ci dice Pipero nel suo ristorante.

“C’è già un sistema che ormai più o meno tutti adottiamo per evitare questi inconvenienti: prendere il numero di carta di credito da cui scalare un conto in caso non ci si presenti. Ma non è una vera soluzione, si può facilmente aggirare.” Quello che interessa davvero ad Alessandro Pipero -così come ad altri suoi colleghi- è evitare intoppi, prese in giro e che la prenotazione fantasma si possa ripetere in futuro.

“Quando chiamate per prenotare da me, io poi faccio una ricerca sui social per capire chi avrò di fronte, conoscere e poter accogliere come fossi un cliente abituale e creare empatia tra di noi”.

Ecco in che senso allora la tecnologia ha contribuito a dare un’arma in più alla ristorazione.

Parlare di come internet abbia cambiato il modo di percepire la ristorazione e non citare l’aspetto social e il nuovo mondo delle recensioni, significa parlarne a metà.

Ed è qui che nasce poi la vera dicotomia tra buono e cattivo utilizzo del web in Italia.

In una recentissima ricerca intitolata Italian Data Flavour (che potete scaricare da questo sito), pubblicata nell’ottobre scorso, si possono esaminare per la prima volta i problemi e i punti di contatto tra internet e ristorazione italiana.

La ricerca ha analizzato il grado di digitalizzazione dei ristoranti stellati italiani e dei consorzi di tutela. Su 356 stellati e 273 tra DOP, IGP, Consorzi, DOCG, ecc, le questioni emerse dal report lasciano pensare.

Vero, i dati che potete trovare qui hanno come campione diversi ristoranti di alta cucina, ma si può dire che siano facilmente attribuibili a più livelli di ristorazione. Ne emerge un quadro in cui il cliente non può quasi mai fare a meno di consultare il web prima di scegliere. E lo fa servendosi di più canali: il sito del locale, i portali di recensioni, i social network e Google che, sempre più, accorpa nel servizio di mappe le informazioni di base come prezzi, riscontri e news. Per dirla in numeri in media 4 italiani su 5 cercano i ristoranti su internet prima di recarvisi. Leggono dalle 6 alle 12 recensioni on-line prima di prenotare il ristorante giusto e sono ad oggi due milioni le persone che hanno scelto di prenotare online. Un numero in crescita, ma ancora non ai livelli di altri Paesi. In Inghilterra più di un terzo degli utenti prenotano online tramite app o sito web. L’Inghilterra è anche il paese natale di Open Table, applicazione di booking che combatte i No Shows impedendo al cliente che non si è presentato per più volte di accedere sia alla prenotazione sia al sito del ristorante. In Francia, invece, i dati dello scorso anno indicano una crescita del 30% rispetto al 2017 per le prenotazioni via web nonostante siano solo 1100 circa su più di 4000 i ristoranti che lo consentono. Bene anche la Germania e il Belgio, dove invece a dominare ci sono i portali che offrono scontistiche.

E c’è infine il caso delle recensioni. La somma delle recensioni positive o negative può, nell’era di internet, determinare un flop o il successo di un ristorante. Ma è anche vero che non possono essere sempre strumenti affidabili.

Anche in questo caso internet è il problema, e internet è la soluzione.

Ormai il Far West informatico va sparendo, lasciando spazio a nuove e valide idee che possono aiutare a rendere omogenea la scelta. Tripadvisor ha per esempio appena creato una comunità fatta di profili e foto come fosse un Instagram dei viaggi e dei ristoranti. FoodiesTrip è invece un’applicazione sviluppata da alcuni ragazzi italiani che combatte le recensioni false. Attraverso domande specifiche, geolocalizzazione e durata della cena.

Da un inizio di sola informazione, oggi con i social a dominare le nostre vite, le comunità online che suggeriscono i ristoranti migliori e le prenotazioni fatte con un click, internet e la ristorazione si stanno avvicinando sempre di più. Le foto che compaiono inaspettate per farci venire fame, la facilità con cui ordinare, prenotare, informarsi. C’è ancora tanta strada da fare per due mondi che erano fatti l’uno per l’altro fin dall’inizio e non hanno voluto ascoltarsi, ma web e ristorazione è ormai un legame indissolubile.

Un paletto da cui non si torna indietro. Il futuro della ristorazione.

Perché vi piaccia o no, le cose vanno avanti.

Andrea Strafile


L'importanza strategica dei lavapiatti, viaggio nelle retrovie della cucina

Come in un qualsiasi palcoscenico che si rispetti, anche in quello della cucina esiste un dietro le quinte. Essenziale, ma invisibile agli occhi come si conviene a tutto ciò che è importante ma a cui agli spettatori è negato lo sguardo. Se, però, nella locandina di uno spettacolo teatrale trovano spazio, quanto meno, le citazioni di scenografi, responsabili del suono e delle luci fino ad arrivare, talvolta, agli attrezzisti, quando si parla della cucina di un ristorante tutto è molto più ristretto. Di solito non si va oltre lo chef, il sous e il pastry chef, il sommelier e il maître. Nelle retrovie, però, e non solo tra fornelli, frigoriferi e lavelli, ci sono altre figure che ruotano e contribuiscono alla “macchina” di un ristorante. Togliendo cuochi, pasticceri e stagisti, il cui numero e i ruoli dipendono dalla dimensione del locale e dal numero dei coperti, a fare grande qualunque ristorante ci sono anche plongisti, addetti alla lavanderia, economi e, semplici (si fa per dire) runner. Senza di loro l’attività corrente si interromperebbe.

I PLONGISTI. Pensate, per esempio, ai plongisti, ovvero gli addetti alla plonge, nel linguaggio comune i lavapiatti. «Le stoviglie di una cucina sono un patrimonio enorme e prezioso e non si possono affidare al primo venuto – fa notare l’Ambasciatore del Gusto Paolo Griffa che nelle cucine del Grand Hotel Royal e Golf di Courmayeur ha al suo servizio due plongisti specializzati –. Il costo di ognuno dei nostri piatti va dai 30 agli 80 euro e ce ne sono alcuni, realizzati a mano da artigiani che devono essere lavati e asciugati a mano uno per uno». Il plongista non si occupa soltanto del lavaggio, manuale o a macchina, delle stoviglie, ma anche delle pulizie e della sanificazione degli ambienti e di tutte le attrezzature. Immaginate, anche solo per un attimo, cosa potrebbe accadere se qualche utensile mal lavato o sanificato trasferisse a un piatto il retrogusto di un’altra lavorazione. E non è tutto. «Velocità e organizzazione sono fondamentali per un plongista», sottolinea l’Ambasciatore Marco Sacco, che de Il piccolo lago a Mergozzo è chef e patron.

«Poter contare su lavapiatti specializzati e di fiducia permette a tutta la brigata di lavorare in tranquillità», continua lo chef piemontese il cui rapporto con il suo plongista di riferimento dura ormai da anni.
Sono tre i plongisti del Ratanà, ristorante milanese di Cesare Battisti, segretario dell’Associazione. «Per me i lavapiatti sono un perno fondamentale del lavoro e parte integrante della squadra – dice Battisti -. Senza di loro il lavoro mancherebbe di fluidità anche perché in una cucina non grandissima c’è la necessita di usare più volte in una serata le stesse pentole e qualora non fossero disponibili tutto il meccanismo s’incepperebbe». «Considero la plonge come un’altra partita e il responsabile di quest’ultima un anello fondamentale di tutto l’ingranaggio della cucina considerando che molte stoviglie devono essere lavate e asciugare a mano per il loro valore», afferma senza esitazione l’Ambasciatore Alessandro Gilmozzi del ristorante El Molin di Cavalese. «Senza Russell – aggiunge – che da sette anni sovrintende al ruolo non mi sentirei sicuro, lui è il primo a entrare e l’ultimo ad andare via. Si occupa di formare i nuovi lavapiatti, sovrintende alla raccolta differenziata che per noi è importantissima».

DA LAVAPIATTI A CHEF? Nel passato, quando la cucina era diversa e la formazione professionale non aveva ancora raggiunto livelli d’eccellenza, entrare in una cucina come lavapiatti era il primo passo verso altri mestieri. Oggi le cose sono decisamente diverse, anche se non mancano storie di chi ce l’ha fatta partendo dalle retrovie imparando il mestiere giorno per giorno.
«Nell’organizzazione di una cucina moderna c’è una differenziazione tra i settori. Se chi si propone in cucina o in sala ambisce a crescere, i lavapiatti solitamente sono donne e uomini del posto che cercano un impiego fisso», dice Marco Sacco che li sceglie tra chi si propone attraverso i curriculum.
«Sono in pochi tra i lavapiatti quelli che vorrebbero entrare in cucina», è d’accordo Cesare Battisti.
Tra coloro che, eccezioni che confermano la regola, ha cambiato posizione c’è Jacky, capo pizzaiolo di uno dei locali di Gilmozzi.
«Jacky arriva dal Bengala, ha cominciato da me come lavapiatti in pizzeria e non si è più fermato. A spingerlo è stata la passione, oggi è il capo pizzaiolo e il mio assistente per i lieviti», conclude Gilmozzi confermando che storie come quella di Sonko, lavapiatti gambiano del Noma diventato socio di René Redzepi, non sono irripetibili.

Mariella Caruso


Rapporto Waste Watcher 2019: In Italia 15 miliardi di euro di cibo finiscono in pattumiera

Solo un italiano su tre ha l’abitudine di chiedere al ristoratore un contenitore per trasportare a casa il cibo rimasto nel piatto. E se il 18% soltanto raramente fa riporre quanto avanzato nella cosiddetta doggy bag il restante 49% degli italiani lascia che il ristoratore getti via quanto non consumato alimentando lo spreco di cibo. Il dato è riportato nella ricerca Coldiretti/Ixe diffusa in occasione della Giornata nazionale di prevenzione dello spreco alimentare che ricorre il 5 febbraio di ogni anno e che nel 2019 è giunta alla sesta edizione.

In totale lo spreco alimentare in Italia vale lo 0,88 del Pil, in soldoni si parla di 15 miliardi di euro, somma che si ricava dal totale dello spreco alimentare di filiera che vale oltre 3 miliardi e comprende i dati aggregati di produzione e distribuzione, e quello domestico che rappresenta 11,8 miliardi, ovvero i 4/5 dello spreco complessivo italiano in tema alimentare che fa finire nella pattumiera bevande analcoliche, legumi, frutta fresca e pasta senza nemmeno essere stati consumati. A cristallizzare quest’altro dato è stato il rapporto Waste Watcher 2019 realizzato nell’ambito del progetto 60 Sei Zero del Dipartimento Scienze e Tecnologie Agroalimentari dell’Università di Bologna insieme al Ministero dell’Ambiente e della campagna Spreco Zero di Last Minute Market.

Un quadro poco confortante che fa il paio con la mancata percezione della portata dello spreco domestico. Quattro italiani su cinque, autoassolvendo i propri comportamenti, infatti, sono convinti che si sprechi nel commercio (47%) e nella gestione delle mense pubbliche di scuole, ospedali, uffici e caserme (27%). Al contrario è proprio in famiglia che si concentra lo spreco con una media di 600 grammi di alimenti gettati nella pattumiera ogni settimana che equivalgono a un controvalore di circa 28 euro.

«È di facile evidenza come occorra una sempre maggiore attenzione a un tema che si riflette in più ambiti», argomenta Gianluca De Cristofaro, Responsabile tecnico scientifico e delle relazioni esterne e istituzionali degli Ambasciatori del Gusto allargando la visione alle conseguenze dello spreco a partire dallo sfruttamento dei terreni per continuare fino al problema della plastica che sta invadendo gli oceani. «Basti pensare all’ambiente sollecitato da colture e allevamenti intensivi, stressato dall’inquinamento dovuto alla produzione, alla distribuzione e dagli scarti di produzione non deperibili di cui fa parte anche la plastica che è anche negli imballaggi degli stessi prodotti».

Tra le domande somministrate per la compilazione del Rapporto Waste Watcher 2019 c’erano anche quelle sui provvedimenti utili al contrasto dello spreco alimentare. In questo caso il 72% degli italiani ha indicato l’educazione alimentare come primo baluardo per cambiare il comportamento in materia di spreco alimentare, mentre il 20% s’è auspicato il varo di provvedimenti normativi con incentivi e sanzioni in caso di spreco.

«Come Ambasciatori del Gusto riteniamo che l’attività andrebbe concentrata nell’educazione alimentare partendo dagli adulti, in un utilizzo più razionale e ponderato delle risorse, prediligendo la stagionalità. Ormai in pochi conoscono quando un prodotto è disponibile in natura – conclude De Cristofaro -, invece stimolare il desiderio attraverso l’attesa, rinunciare a un prodotto per poterne godere al tempo giusto, educa e amplifica anche il piacere del godimento».

Mariella Caruso