La dolcezza deve conquistare tutto il menù

Chef di pasticceria e chef di cucina sono due mestieri contigui, ma profondamente diversi. Il motivo è semplice. «Tecnicamente la pasticceria è diversa, è parente stretta della chimica e non può prescindere dall’utilizzo della bilancia, del controllo delle temperature», concordano i due Ambasciatori del Gusto Corrado Assenza del Caffè Sicilia di Noto e Franco Aliberti de La Preséf  ristorante gourmet dell’Agriturismo La Fiorida, insieme a Loretta Fanella, pastry chef che dopo le sue esperienza da Carlo Cracco, Ferran Adrià e all’Enoteca Pinchiorri, si dedica alla formazione. Nell’alta ristorazione, poi, la figura del pastry chef è fondamentale perché il dessert al piatto non è una portata come un’altra, ma quella che chiude un’esperienza.

«Preparare i dolci nell’alta ristorazione è uno sporco lavoro. Intanto perché il dolce arriva alla fine del menù quando il cliente è quasi già appagato ed è difficile tenere desta la sua attenzione», sottolinea Aliberti. «Oggi il lavoro del pasticcere si concentra molto sulla ricerca della leggerezza e di quell’acidità che deve aiutare a fine pasto. Ma – ricorda – non bisogna mai dimenticare che un dolce deve appagare vista e palato, essere allettante, calibrato e adeguato al menù e non deve mai sottovalutare la parte ludica».

Sul perché, invece, il pastry chef sia una figura fondamentale dell’alta ristorazione, Aliberti che attualmente si occupa indifferentemente di pasticceria e cucina, è chiaro. «Un pasticcere – spiega – è abituato ad avere pilastri come chimica, scienza, precisione ed etica. In cucina, invece, non esiste la precisione della pasticceria, non è fondamentale conoscere in dettaglio ogni reazione chimica che si innesca durante la preparazione. Così mettere il cuoco in pasticceria è più complicato che mettere il pasticcere in cucina».
«Il percorso dal dolce al salato – osserva infine – mi ha permesso di trasferire in cucina un approccio e una visione degli ingredienti diversi da quelli di chi ha sempre lavorato con i piatti salati».

«Più che di un pastry chef a me piace parlare di uno specialista della dolcezza che, nel mio organigramma ideale, dovrebbe avere spazio di intervento dall’antipasto al dolce perché in ogni partita, in ogni piatto, in ogni preparazione può esserci spazio per la dolcezza a patto che non sia zuccherina, ma naturale», si espone Corrado Assenza.

«Una grossa pecca della cucina contemporanea è la mancanza di formazione del cuoco non allenato al “mistero” della dolcezza. Oggi siamo in una fase di conversione della cucina ed è necessario allevare una nuova generazione di cuochi non lobotomizzati che accanto all’emisfero sapido devono coltivare anche quello dolce. Ai cuochi in formazione servono tonnellate di ore di lavoro e non di televisione», è la riflessione del Maestro.

«È un passo culturale ed epocale: occorre ridisegnare la cucina contemporanea perché non si può pensare che in un primo piatto come il riso o la pasta, se facciamo riferimento all’Italia, non ci sia una sua dolcezza naturale che può essere sfruttata, valorizzata o esaltata accanto alla sua sapidità», chiarisce.

Sulle caratteristiche del dessert di fine pasto, invece, Assenza non ha remore a parlare dell’assoluta necessità di «coerenza con il menù». «Sempre nel mio schema ideale io non ricorrerei alla carta dei dolci, ma inserirei i dolci nella carta principale perché come per le altre pietanze fa parte di un percorso», aggiunge.

Va da sé che il dessert deve avere «stagionalità, territorialità, freschezza, leggerezza, eleganza, forma visiva sul palato. Deve essere, quindi, un’emozione nell’emozione perché è l’ultima e può diventare un coperchio di piombo o una piuma».

«La pasticceria è diversa dalla cucina salata, richiede una precisione e un’attenzione particolare perché, ad esempio, nella preparazione di un lievitato non si può prescindere dall’umidità dell’aria. Per la pasticceria occorre molto di più e non ci si può improvvisare: serve attenzione e dedizione», osserva Loretta Fanella che ha fatto anche esperienze in cucina.

Sull’ideazione del dessert al piatto, poi, Fanella ricorda come «all’arrivo del dessert la pancia è già piena e lo si mangia o perché si vuole qualcosa di dolce o per concludere bene il pasto: per questo è necessario equilibrare i sapori degli ingredienti».

«La chiave di un dessert di chiusura pasto – continua – è l’utilizzo di poco zucchero e le note di acido e salato, elementi in grado di stimolare di nuovo il palato. Contro la stanchezza del pasto bisogna usare anche il divertimento e la curiosità magari combinando bocconi diversi». Curiosità che, però, non deve mai andare troppo oltre seguendo tout court le tendenze che, in questo momento, contemplano ingredienti non tradizionali anche in pasticceria. «I clienti vanno prima fidelizzati per poi – conclude – magari stupiti ogni tanto».

Mariella Caruso


La cucina italiana è il «soft power» nazionale nel mondo

Grenoble, Pechino, San Pietroburgo, Mosca e adesso Santiago del Cile. Sono le città in cui, dal 1990, Marco Ricci ha svolto attività diplomatica sviluppando di pari passo una passione per l’enogastronomia, diventando un vero gourmet. «Ho sempre avuto una passione per la cucina, sin da piccolo – racconta Marco Ricci -. Devo ammettere, però, che è stato il periodo trascorso in Francia quello che ha provocato la scintilla e influito sulla mia passione verso l’enogastronomia. In quegli anni, con mia moglie, abbiamo avuto la possibilità di provare la cucina di grandissimi chef. Nelle vicinanze di Grenoble erano attivi personaggi mitici come Paul Bocuse, giganti della tradizione come i Troisgros a Roanne e astri nascenti come Pierre Gagnaire a Saint-Etienne e Marc Veyrat ad Annecy. Sul fronte enologico, da Grenoble si era a un passo dalla Borgogna e dalla parte settentrionale del Côtes-du-Rhône (quella che preferisco e dove si producono straordinari Syrah). Da quel momento, siamo partiti un po’ per curiosità un po’ per necessità professionale, alla scoperta delle eccellenze del nostro paese che in quegli anni stava vivendo una vera e propria rivoluzione sia sul fronte dell’enologia che della gastronomia. Oggi la cucina italiana si è imposta in tutto il mondo con punte di eccellenza altissime e veramente non teme rivali, anche se non dobbiamo mai abbassare la guardia». 

Ambasciatore Ricci, qual è il valore della Settimana della Cucina Italiana nel Mondo?

«Si tratta di un’iniziativa nata sulla scia del successo di Expo 2015 e che in poco tempo, grazie al sostegno degli Ambasciatori del Gusto ha rivelato un enorme potenziale risultando determinante per promuovere e valorizzare la tradizione culinaria italiana all’estero come uno dei segni distintivi della nostra immagine».

Lei è stato in servizio diplomatico a Grenoble, Pechino, San Pietroburgo, Mosca e adesso Santiago, come cambia la percezione dell’enogastronomia italiana del mondo?

«Anzitutto parliamo di un arco temporale di trent’anni. Tre decadi, queste ultime, in cui il panorama enogastronomico è cambiato in maniera impressionante a livello mondiale e in Italia in particolare. Nella Francia dei primi anni Novanta la cucina italiana era per lo più associata alle pizzerie. I vini italiani erano pressoché sconosciuti e anche nelle pizzerie spesso limitati al Lambrusco. Oggi invece Oltralpe c’è grande interesse per l’enogastronomia italiana mentre chef stellati come Pierre Gagnaire e Robuchon non disdegnano di servire, rispettivamente, burrata e pasta alla carbonara. In Cina, quando sono stato a Pechino a metà degli anni Novanta, il paese era ancora molto chiuso, anche se si vedeva già concretamente l’enorme potenziale. I russi amano tutto ciò che è italiano, anche se va fatta una distinzione importante tra San Pietroburgo, Mosca e il resto del paese. A San Pietroburgo, dove sono stato dal 2002 al 2006, abbiamo dovuto lavorare molto per cercare di promuovere l’enogastronomia italiana. Questo perché, con la fine dell’URSS i pietroburghesi oltre a ridare alla città l’antico nome (in epoca sovietica si chiamava Leningrado), hanno cercato di recuperare le antiche tradizioni e fra queste, in ambito culinario, c’era il dominio esclusivo della cucina francese, sia a corte sia a livello di ristorazione. Inoltre, quando sono arrivato erano veramente pochi i prodotti reperibili e questo rendeva praticamente inutili la maggior parte dei libri di cucina italiana. È per questo che Linda, mia moglie, decise di pubblicare un libro di ricette basato solo ed esclusivamente sui prodotti reperibili in quel momento. Tutt’altro contesto è quello di Mosca, dove la mancanza di questa influenza ‘storica’ e la maggiore disponibilità economica dei suoi abitanti, hanno fatto sì che la nostra gastronomia vi si sia affermata da subito con una grande offerta sia in termini numerici che qualitativi. Nel resto del Paese è un’altra storia, anche se non è raro trovare, persino in posti sperduti, ristoranti gestiti da italiani».

C’è qualcosa di comune ovunque si vada?

«Certo, il fatto che la cucina italiana sia un elemento caratterizzante della nostra identità, apprezzata in ogni angolo del pianeta e conosciuta da tutti (anche se la rappresentazione che se ne ha a volte è assai distante dalla realtà). Si tratta di un vero e proprio ‘soft power’ che ci permette di dialogare con successo con la grande maggioranza dei nostri interlocutori».

 

In Cile in occasione della Settimana della Cucina Italiana nel Mondo Lei ha ospitato negli ultimi due anni Corrado Assenza, Cristina Bowerman e i fratelli Costardi che sono anche Ambasciatori del Gusto, ci racconta l’esperienza?

«Sono state esperienze straordinarie per noi e, ovviamente, per coloro che hanno potuto provare le loro preparazioni. Tre diverse facce della nostra gastronomia. Iniziando con Corrado Assenza, che è stato nostro ospite nel 2017 per la seconda edizione, è evidente che siamo in presenza di un professionista difficilmente classificabile che giustamente mette in discussione le tradizionali categorie delle scienze culinarie in nome di un approccio olistico che lo ha portato a sfidare le distinzioni convenzionali tra salato e pasticceria. Nelle sue preparazioni qui a Santiago, oltre a valorizzare le sue ricerche sui prodotti ha presentato una cucina di territorio dando la parola ai prodotti, in parte provenienti dall’Italia in parte utilizzando quelli locali. Ed è proprio in questo contesto che ci rendiamo conto che la grandezza della nostra enogastronomia si basa non solo sulla qualità intrinseca delle nostre migliori produzioni, ma anche e soprattutto sull’enorme differenza di prodotti delle nostre terre. Il Cile, per esempio, ha un’ampia varietà climatica beneficiando nella fascia centrale di condizioni simili a quelle del mediterraneo ma sul mercato locale la varietà di prodotti reperibili è di gran lunga inferiore a quella che si può trovare nelle quattro stagioni in Italia. Questo vale anche sul fronte del vino, dove da tempo il Cile si è affermato come grande attore e che sta migliorando molto la qualità delle sue produzioni. Tuttavia, fino ad ora, queste sono per lo più espressione di pochi vitigni internazionali tra cui spiccano Carmenere (che era scomparso a Bordeaux dopo la filossera), Cabernet, Merlot e Pinot nero per i rossi e Sauvignon e Chardonnay sul fronte dei bianchi. Consapevoli di questo limite, ora molti produttori cileni stanno cercando di provare vitigni – spesso italiani, come Montepulciano, Teroldego e Fiano – per poter differenziare la propria offerta sui mercati internazionali. Per nostra fortuna molti di questi vitigni, al di fuori del microcosmo italico in cui si sono sviluppati, non esprimono il carattere e l’unicità che li contraddistinguono, consentendoci, credo, di poter mantenere un importante elemento di differenziazione».

Poi c’è stata Cristina Bowerman

«Un vero vulcano in termini di creatività e questo si nota anzitutto a livello professionale, nella sua continua sperimentazione di prodotti e tecniche che sono l’espressione di un approccio intelligente e costruttivo al dialogo con altre tradizioni culinarie. E tutto questo, mantenendo sempre una chiave d’interpretazione italiana. Inoltre è una grande manager e questo è dimostrato oltre che dal successo dei suoi ristoranti, un settore dove non è possibile lasciare spazio all’improvvisazione, anche dalla sua capacità di gestione dell’Associazione Italiana Ambasciatori del Gusto, di cui è presidente. È proprio grazie al suo coordinamento che abbiamo potuto realizzare, lo scorso dicembre, una serata indimenticabile dedicata a Roma, con altri due ambasciatori del gusto oltre a Cristina: Luigi Nastri e Giulio Terrinoni. L’evento – che si è svolto presso il Centro Cultural ‘La Moneda’ una struttura contigua al palazzo presidenziale cileno, una sorta di Scuderie del Quirinale –  ha rappresentato un’ottima occasione per valorizzare un’importante mostra di opere sull’antica Roma provenienti dai Musei Vaticani».

E, infine, i fratelli Costardi

«Senza dubbio tra i più qualificati interpreti di uno dei piatti più iconici della nostra cucina ma anche molto abusato nelle sue interpretazioni a livello internazionale: il risotto – aggiunge -. La sua preparazione può sembrare apparentemente semplice ma in realtà necessita di punti fermi: la qualità delle materie prime e una tecnica che ne rispetti e esalti le caratteristiche. Se a ciò aggiungiamo l’incontenibile creatività di Manuel sul fronte della pasticceria e un tocco di “pop art”, la loro performance a Santiago non poteva che essere un successo».   

Qual è il grado di conoscenze e di diffusione dei prodotti italiana in Cile?

«Relativamente limitata rispetto al potenziale. Anche se non ci sono dazi sull’importazione dei nostri prodotti, esistono varie barriere non tariffarie a iniziare dai controlli fitosanitari e relative certificazioni che limitano fortemente i prodotti freschi, specialmente nel settore caseario e delle carni lavorate. Un altro ostacolo deriva dalla fortissima concentrazione nel mondo della distribuzione che di fatto rende molto difficile, in particolare per una piccola e media impresa, riuscire a penetrare in questo mercato le cui dimensioni sono peraltro assai ridotte».  

E la diffusione della cucina e dei ristoranti italiani?

«Negli ultimi anni si è assistito ad un interesse crescente del pubblico cileno verso la cucina in generale e quella italiana in particolare. Accanto agli storici ristoranti, come Rivoli, si sono affiancate nuove proposte di qualità tra cui Brunapoli, che ora conta due locali di successo in importanti quartieri della città, mentre un cuoco italiano, Ennio Carota, è da tre anni membro della giuria di MasterChef Cile».

Quanto si sente in Cile il fenomeno dell’«Italian sounding»?

«Abbastanza, anche se in linea con quanto accade nel resto dei paesi del mondo. Su questo tema, credo dobbiamo distinguere tra chi in maniera scorretta utilizza nomi, tricolori e denominazioni per trarre in inganno il consumatore e quei produttori di origine italiana che hanno avviato già dagli inizi del secolo scorso, nei luoghi di emigrazione, la produzione di paste, conserve e altri prodotti italiani, contribuendo, non sempre in maniera ortodossa, alla diffusione e internazionalizzazione della nostra gastronomia. Qui in Cile, per esempio, la nostra influenza nello sviluppo dell’industria agroalimentare è stata determinante e quindi oggi nei supermercati cileni pasta, conserve e olio d’oliva hanno marchi con nomi italiani. Di questi, alcuni hanno conservato il carattere familiare mentre molti oramai sono in mano a gruppi economico-finanziari interessati a sfruttare l’Italian sounding, un fenomeno che ci danneggia moltissimo a che dobbiamo affrontare non solo a livello istituzionale e normativo ma anche – data l’enorme difficoltà dell’azione di contrasto – concentrandoci nello spiegare la differenza tra copia e originale.  Al netto delle imitazioni che, come spesso accade anche nel mondo della moda, possono servire a creare status symbol e dare valore all’autentico, non dobbiamo necessariamente pensare che tutti i consumatori mondiali di prodotti Italian sounding qualora questi non esistessero, si trasformerebbero in consumatori del Made in Italy (in quanto probabilmente c’è un fattore prezzo che non glielo permetterebbe). Uno dei compiti delle istituzioni e dei vari attori coinvolti in questa sfida, come l’Associazione Italiana Ambasciatori del Gusto, è anche quello di far comprendere la differenza e il valore aggiunto dell’originale, in particolare delle Denominazioni di Origine».

La Settimana della Cucina Italiana nel Mondo può essere migliorata nel format o aiutata con altre iniziative?

«La Settimana segue un format che, a mio avviso, funziona molto bene. Peraltro, nella sua seconda edizione, si è deciso in maniera intelligente di articolare ulteriormente il palinsesto di attività, dedicando ciascun giorno della settimana a un prodotto o ad un aspetto della nostra gastronomia. Ciò ha permesso di mostrare al pubblico, in maniera ancor più efficace, la grandissima qualità e varietà della nostra cucina, vera e propria punta di diamante del Made in Italy. Ovviamente, quest’azione promozionale, non deve limitarsi a una sola settimana di eventi. Occorre che da parte nostra sia accompagnata da uno sforzo continuo di sostegno alle imprese del settore, molto spesso PMI, impegnate quotidianamente a conquistare quote di mercato all’estero».  

Quale può essere il ruolo dell’Associazione Italiana Ambasciatori del Gusto?

«Gli Ambasciatori del Gusto rappresentano una risorsa essenziale per dare un forte impulso all’azione di promozione della nostra gastronomia all’estero. I prestigiosi chef che vi hanno aderito e la disponibilità dimostrata a raggiungere i luoghi più remoti, sono una condizione indispensabile per dare il giusto rilievo alla qualità della nostra gastronomia e nel mostrare gli elementi portanti della cucina italiana anche nelle diverse declinazioni regionali: importanza degli ingredienti (in termini di qualità e freschezza), rispetto e valorizzazione dei territori, l’innovazione delle ricette nel rispetto dei canoni che identificano la nostra cucina».

Mariella Caruso


Berton, individualismo e istituzioni distratte frenano la crescita della ristorazione

Il sistema dell’alta ristorazione italiana deve restare in una dimensione locale, accontentarsi di curare la propria clientela seguendo la vulgata “piccolo è bello”, oppure lanciarsi sul mercato espandendo le proprie aziende per competere con i grandi della gastronomia internazionale?
La domanda, diventata una provocazione lanciata in occasione del primo Congresso nazionale degli Ambasciatori del Gusto da Severino Salvemini, economista e professore ordinario di organizzazione aziendale all’Università Bocconi di Milano.
Ne abbiamo parlato con l’Ambasciatore del Gusto Andrea Berton che, al suo ristorante milanese premiato con una stella che mantiene dal novembre 2014, ha affiancato il Berton al Lago aperto nel luxury hotel Il Sereno di Torno anch’esso appena premiato con una stella. Inoltre gestisce a Milano, con alcuni soci, due locali Dry Cocktail & pizza e il bistrot contemporaneo Pisacco.

Berton, è meglio essere solo chef o chef imprenditori?

«Questo dipende dagli obiettivi. L’importante è lavorare mantenendo ben salda la barra rispetto a quanto ci si è prefisso. Per chi vuole espandere la propria azienda l’importante è ampliare sempre la conoscenza. Allo stesso tempo per chi vuole internazionalizzare la propria azienda occorre lavorare in condivisione, confrontarsi di più prendendo spunto dai nostri colleghi francesi e spagnoli che conoscono bene la gastronomia e questo tipo di processi».

Cosa blocca la crescita dell’alta ristorazione italiana?

«L’adattamento alla tradizione della cucina italiana. Servirebbe, al contrario più libertà, lasciarsi andare un po’ di più facendoci conoscere. È fondamentale anche il coinvolgimento delle istituzioni affinché supportino davvero lo sviluppo internazionale della ristorazione con grandi eventi e manifestazioni che vadano oltre la “Settimana della cucina italiana nel mondo” con l’obiettivo di fare acquisire alla nostra cucina il valore della cucina francese».

Cosa intende quando parla di sistema Italia che non supporta il settore enogastronomico?

«Al funerale di Gualtiero Marchesi non c’era alcun rappresentante istituzionale, a quello di Paul Bocuse in Francia c’era il ministro dell’Interno e tutta la Francia lo ha onorato».

Secondo lei si tratta di una distorta percezione del settore?

«Può essere un difetto di percezione, anche se negli ultimi anni sono tanti gli sforzi fatti anche attraverso associazioni. La verità è che l’individualismo italiano limita molto le nostre possibilità. Ultimamente abbiamo cominciato a parlare di unità e di remare tutti nella stessa direzione anche attraverso associazioni come gli Ambasciatori del Gusto: la speranza è che tutte queste parole non restino tali e possano trovare un’applicazione pratica, che purtroppo è molto difficile a causa di un sistema del quale anch’io sono parte integrante. Tutti dovremmo impegnarci un po’ di più per uscire da questo meccanismo un po’ ingarbugliato che ha il suo primo nodo nel costo del lavoro».

Lei, però, è riuscito ugualmente a espandere la sua attività…

«Ho aperto qualche ristorante con molta difficoltà e fatica. Se avessi deciso di espandermi negli Stati Uniti, a Londra o a Singapore avrei faticato la metà e guadagnato dieci volte di più per via delle agevolazioni riservate in quei Paesi a chi fa investimenti. In Italia la nostra categoria parla tanto, ma non arriverà mai a niente fin quando non riuscirà a interagire come seria controparte delle istituzioni. Faccio un esempio: noi ristoratori dovremmo avere un contratto ad hoc diverso da quello del commercio. E le istituzioni dovrebbero tenere presente che c’è una percentuale di turisti che arriva in Italia per vivere un’esperienza enogastronomia».

Le iniziative individuali possono aiutare?

«Non so fino a che punto. Negli ultimi 4 anni la mia attività è diventata un piccolo sistema con 110 dipendenti. Ci sono altri colleghi che ne hanno altrettanti. Il nostro lavoro fa aumentare la qualità e supporta anche il turismo, ma nessuno sembra accorgersene. La verità è che noi ristoratori italiani siamo masoschisti e invece di andare in Paesi dove ci stenderebbero i tappeti rossi, restiamo qui. Confesso di aver pensato anch’io ad andar via, ma amo il mio Paese e resto qui».

Nemmeno Expo 2015 ha cambiato le carte in tavola?

«Milano è sicuramente migliorata a livello di accoglienza turistica e di ricerca della qualità nella ristoriazione che, oggi, riguarda almeno l’80% delle nuove aperture di settore. Ma a livello gestionale non è cambiato niente, per me lavorare a Milano o al Lago è la stessa cosa eccezion fatta per la percezione del luogo da parte di chi lo vive come cliente».

Secondo lei cosa dovrebbero mettere in campo le istituzioni?

«Io non sono un politico, però il Noma di Redzepi quando aprì aveva il supporto del Ministero del Turismo locale per il ruolo di ambasciatore della gastronomia danese nel mondo. Una gatronomia che, fino a quel momento, era inesistente. Realisticamente non dico che bisogna fare cose del genere, ma se il sistema avesse una guida illuminata, chessò un Massimo Bottura al timone di un Ministero delle Politiche Gastronomiche, le cose potrebbero imboccare un’altra strada».

Una strada  potrebbe essere anche l’educazione dei clienti?

«I clienti sono molto più preparati di quanto si pensi. Sono tanti a capire che noi ristoratori siamo imprenditori, non mangiano più soltanto pasta e pizza, piatti di per sé importanti. Però bisogna avere fiducia nel futuro».

Mariella Caruso


Gli Ambasciatori del Gusto hanno lasciato il segno a Identità Milano

Due cornici per gli Ambasciatori del Gusto! Sono state quelle che hanno fatto da contorno alla partecipazione dell’Associazione al Congresso Identità Milano. La prima, metaforica, è stata quella dell’appuntamento gastronomico ideato dall’Ambasciatore Paolo Marchi che, come di consueto, ha riunito per tre giorni a Milano il gotha della ristorazione internazionale. La seconda, reale, quella attraverso la quale tanti degli Ambasciatori che sono passati allo stand si sono fatti fotografare durante il Congresso per immortalare la loro presenza come componenti dell’Associazione.

I primi a farsi ritrarre dentro la cornice sono stati Franco Aliberti e Cristoforo Trapani che con il piatto Vegetale del primo, un dolce con cioccolato bianco, topinambur e tartufo, e il Rigatone dolce pomodoro e mozzarella del secondo hanno aperto le danze degli assaggi. I due Ambasciatori, l’uno espressione della Valtellina e l’altro dell’italianità a tutto tondo, hanno introdotto il tema della riscoperta del territorio e del farsene portavoce così caro all’Associazione.

A portare il proprio assaggio territoriale c’è stato anche Pasquale Torrente con il suo “Scammaro”. «La rivisitazione – spiega lo chef – della frittata di maccheroni.

L’etimologia della parola Scammaro arriva da “cammarare”, ovvero mangiare in camera di nascosto il piatto con la carne in tempo di Quaresima. “Scammaro” significa mangiare fuori dalla camera, senza carne».

Giorgio Scarselli, con la collaborazione di Fumiko Sakai, ha preparato il Merluzzo con insalata di rinforzo.

Il Maestro panificatore Francesco Arena ha deliziato i palati con il suo Pane con farine di grani antichi siciliani, con nocciole dei Nebrodi, cacao e uvetta di Pantelleria e robiola delle Madonie, con sale aromatizzato al limone e olio evo facendo gustare la “Sicilia e dintorni in un morso”.

Anche Marta Scalabrini ha portato una tipica ricetta di Reggio Emilia preparata con le erbe di campo, l’Erbazzone.

Hanno chiuso Paolo Gramaglia con la Fettuccina di calamari e Marco Sacco con il suo Topinambur in tre consistenze, «un ricordo della nonna che mi portava sulle rive del Toce a raccogliere un prodotto della terra che può essere visto come una sorta di tartufo povero».

Ospiti degli Ambasciatori del Gusto sono stati anche alcuni studenti del Centro di Formazione Professionale Alberghiero di Amatrice “adottati” dall’Associazione nell’ambito del progetto “Fare formazione” che l’Associazione ha finanziato con i fondi raccolti in occasione della cena “7 chef per Amatrice”. Insieme all’Ambasciatore Renato Bosco gli studenti hanno calcato il palco di Identità di Pizza del Congresso come ospiti speciali: due hanno aiutato Bosco a impastare la pizza, quattro hanno svolto il servizio in sala. Poi gli studenti hanno visitato gli stand degli espositori di settore e dialogato con gli altri Ambasciatori.
Infine i ragazzi hanno chiuso con una cena didattica al Rataná con un percorso attraverso i prodotti della terra e la cucina lombarda.

Nello stand la presidente Cristina Bowerman ha fatto da nume tutelare al via vai degli Ambasciatori, 30 quelli che hanno partecipato a vario titolo ai lavori del Congresso. Tra questi alcuni, nell’ambito di Identità Milano, sono stati premiati: a Giancarlo Morelli è stato assegnato il Premio Birra Moretti Grand Cru; ad Antonia Klugmann il premio Artigiano del gusto e ad Aurora Mazzucchelli il premio Identità Donna.

“Quest’anno l’Associazione Italiana Ambasciatori del Gusto ha partecipato a Identità Golose in modo ancora più attivo e coinvolgente. – conclude la Presidente  Cristina Bowerman – Ringrazio gli Ambasciatori del Gusto che per tre giorni hanno animato il nostro stand con la loro intraprendenza, ma anche tutti quelli che sono passati  per un selfie con la nostra cornice. Siamo orgogliosi di aver portato gli studenti dell’Alberghiero di Amatrice su un palco così importante e questo ci spinge ancora di più a guardare avanti verso nuovi traguardi.”

Mariella Caruso


Il sommelier professionista è ancora merce rara

«Il ruolo del sommelier nell’alta ristorazione è importantissimo, purtroppo però è ancora una figura poco presente in Italia. Spesso in quella posizione i ristoratori tendono ad arrangiarsi». A parlare è Marco Reitano del ristorante La Pergola dell’Hotel Rome Cavalieri, Ambasciatore del Gusto e per la critica tricolore miglior sommelier d’Italia.

Cosa intende per arrangiato?

«Una figura i cui compiti sono, di frequente, relegati alla sala oppure svolti dallo stesso patron anche se non ha le competenze necessarie. Inutile dire che si tratta di un errore. Oggi la scelta del ristorante si fa anche in base alla carta dei vini. Ma se fino a un po’ di tempo fa le carte importanti erano appannaggio soltanto di locali di alto livello, adesso le cose sono cambiate e si possono trovare liste di vini interessanti anche in locali semplici osterie o trattorie di cucina tradizionale. In quest’ultimo caso, essendo la proposta gastronomica molto simile, la carta dei vini può essere un’attrattiva in più e, managerialmente, può incrementare dal 30 al 70% l’incasso. Di fatto si tratta di un business sul quale c’è poco investimento da parte dei ristoratori».

Quali sono i canali che vanno per la maggiore per l’approvvigionamento della cantina?

«Considerando il problema della mancanza di figure professionali dedicate è chiaro che per i locali è più comodo avere non più di tre referenti per l’acquisto del vino. Poi c’è chi predilige comprare nelle enoteche trasformatesi in grossisti. Questo avviene, di solito, per non sovraccaricare il magazzino del locale quando gli spazi sono molto ristretti o non c’è la capacità di investimento».

In che senso?

«Avere una cantina ben fatta e ben fornita è un investimento e non c’è ancora la mentalità di impegnare una parte di capitali nella cantina. Il primo nodo è ricavare nel locale spazi adibiti alla cantina ai quali si dà ancora troppa poca importanza in fase di progettazione. C’è chi si accorge di non averci pensato dopo aver ordinato la prima fornitura. Infatti, quando mi chiamano per fare delle consulenze, prima di cominciare verifico se ci sono le condizioni in termini di investimento economico e spazi».

Quali sono i tuoi consigli per una carta vini minimamente valida in un piccolo ristorante?

«Per avere una buona varietà che si sposi con la cucina e, soprattutto con le esigenze economiche e di gusto di tutti i clienti, la base è di 70/80 etichette. In questo modo si può avere una scelta di vini italiani e stranieri, champagne, vini a bassa gradazione. Praticamente con sei bottiglie per 70 etichette ci sarebbero da gestire circa 400 bottiglie da tenere parte in frigo e parte in magazzino».

Nient’altro?

«Per i ristoranti storici e quelli di quartiere con la clientela che torna spesso è utile un ricambio degli stock. Il sommelier, per esempio, capisce qual è il momento giusto per rinnovare la carta. Basta ascoltare i clienti».

Sono tanti i clienti che preferiscono il bicchiere alla bottiglia?

«Dipende dal tipo di ristorazione. Se da una parte c’è una moda anglosassone di degustazione i vini al calice, dall’altro c’è chi non va oltre il bicchiere a tavola. Naturalmente se parliamo di ristoranti con grande afflusso diventa più facile proporre il vino al bicchiere anche aprendo bottiglie che non sono in lista. Questo della degustazione è anche un elemento di fidelizzazione».

Da dove deve partire chi vuole fare questo lavoro?

«C’è un mondo di corsi molto vasto. Ce ne sono molti ben fatti, ma non qualificanti a livello professionale perché ti spiegano il vino, ma non come lavorare in un ristorante come sommelier dal punto di vista manageriale. Chi però vuole frequentare un corso perché ha l’ambizione di lavorare come sommelier deve scegliere una formazione precisa che deve tenere conto del lavoro in sala. Anche in questo caso, purtroppo, tra corsi amatoriali e professionali c’è ancora molta confusione».

Cosa succede se un cliente chiede un vino sbagliato rispetto al menù che ha scelto?

«Semplicemente glielo serviamo. Al ristorante non si fa didattica, non esistono leggi divine che impediscano di bere un vino anziché un altro. Il nostro compito è dare ai clienti gli strumenti per capire, magari spiegarli perché l’accostamento non va bene col menu, e questo implica anche conoscere bene il lavoro della cucina e, in primis, di soddisfare le sue esigenze».

In una carta deve esserci, in chiave generale, l’equilibrio qualità-prezzo?

«Rientra nella selezione e nella composizione di una carta vini dare a tutti la possibilità di spendere quanto desiderano. Non si possono mettere in carta soltanto bottiglie da 200 euro. Col vino non capita quello che è normalità con alcuni ingredienti come il caviale in cui al cambio di produttore la differenza di prezzo è minima. Nel vino c’è una forbice molto ampia il vino perché si tratta di una produzione che si rapporta anche all’artigianalità e alle piccole produzioni in cui i costi vengono abbattuti, per esempio, dall’assenza di costi di marketing, pubblicità e altri. L’intelligenza del sommelier sta proprio nella costruzione di una carta vini in relazione a tipo di ristorazione, location dell’esercizio, tipo di clientela».

Il ricarico è un’altra nota dolente…

«Ci sono locali che applicano il 2 come moltiplicatore sul vino indipendentemente dal canale di approvvigionamento, una consuetudine che squilibra i prezzi della carta e non accontenta il cliente che può trovarsi davanti a etichette che costano il doppio rispetto all’enoteca».

Le è mai capitato in Italia la richiesta del “diritto di tappo”?

«Non siamo in Inghilterra dove, non essendoci una produzione propria, c’è chi porta il proprio vino, magari pregiato, al ristorante. Da noi sarebbe davvero strano a meno che non si tratti di una bottiglia simbolica per festeggiare un evento particolare. Detto questo non devono essere chiusure e noi siamo aperti da questo punto di vista».

Mariella Caruso


L’Associazione Italiana Ambasciatori del Gusto a Identità Golose Milano 2018

1 marzo 2018 – L’Associazione Italiana Ambasciatori del Gusto è presente per il secondo anno al congresso internazionale di cucina e pasticceria d’autore Identità Golose, in corso dal 3 al 5 marzo a Milano Congressi (MiCo).

Il tema di questa quattordicesima edizione è Il Fattore Umano. Filo conduttore delle tre giornate d’incontri, che mette al centro le relazioni umane, l’uomo-chef e tutti i protagonisti del suo lavoro: dalla cucina alla sala, al rapporto con i clienti e prima ancora artigiani e fornitori. I più grandi professionisti della ristorazione internazionale – tra chef, pasticcieri, maitre e sommelier – sono chiamati a confrontarsi sull’alchimia che regola buona cucina, servizio e arte dell’accoglienza. 

“L’Associazione Italiana Ambasciatori del Gusto è orgogliosa di essere presente anche quest’anno al più importante appuntamento dedicato alla cucina di qualità. – dichiara Cristina Bowerman, Presidente dell’Associazione – Il nostro scopo è promuovere e valorizzare il patrimonio culturale agroalimentare ed enogastronomico nazionale, in Italia e nel mondo. È fondamentale – ha proseguito – partecipare a momenti di confronto e di networking come Identità Golose, soprattutto in questi ultimi anni di costante evoluzione. Inoltre, credo che abbia un valore particolare essere presenti, soprattutto quest’anno, non solo con uno stand animato dall’intraprendenza di alcuni nostri associati, ma anche con il coinvolgimento attivo degli studenti del progetto Fare Formazione, con cui abbiamo intrapreso un percorso importante che farà tappa anche su uno dei palchi del congresso”.

L’Associazione infatti, sarà presente al congresso con uno stand, dove otto degli ambasciatori del gusto si alterneranno per dare un assaggio della loro cucina di qualità:

Franco Aliberti, La Preséf presso La Fiorida – Mantello (SO): sabato 3 marzo ore 10.30

Cristoforo Trapani, La Magnolia presso Hotel Byron – Forte dei Marmi (LU): sabato 3 marzo ore 12.30

Pasquale Torrente, Al Convento – Cetara (SA): domenica 4 marzo ore 12.30

Giorgio Scarselli, Il Bikini – Vico Equense (NA): domenica 4 marzo ore 16.00

Francesco Arena, Masino Arena – Villaggio Sant’Agata (ME): lunedì 5 marzo ore 10.30

Marta Scalabrini, Marta in Cucina – Reggio Emilia: lunedì 5 marzo ore 11.30

Marco Sacco, Piccolo Lago – Verbania: lunedì 5 marzo ore 12.30

Paolo Gramaglia, President Restaurant Pompei – Pompei (NA): lunedì 5 marzo ore 13.30

Lunedì 5 marzo invece, sarà una giornata speciale del progetto Fare Formazione: sul palco della Sala Blu d’Identità Golose un gruppo di studenti del Centro di Formazione Professionale Alberghiero di Amatrice, guidati dal pizzaiolo e ambasciatore del gusto Renato Bosco, sarà protagonista di una vera e propria performance su come si prepara la migliore pizza del mondo. Tre studenti saranno al suo fianco a impastare e altri tre si occuperanno del servizio in sala. Questa partecipazione è uno dei primi frutti tangibili del progetto avviato a gennaio 2018 e sostenuto grazie alla cena di beneficenza 7 Chef per Amatrice organizzata dall’Associazione il 2 ottobre scorso.

Sono oltre trenta gli ambasciatori del gusto che offriranno la propria competenza ed esperienza a molte delle aziende partner presenti al congresso: Franco Aliberti, Francesco Arena, Corrado Assenza, Cesare Battisti, Enrico Bartolini, Renato Bosco, Cristina Bowerman, Massimo Bottura, Paolo Brunelli, Martina Caruso, Moreno Cedroni, Caterina Ceraudo, Enrico e Roberto Cerea, Antonello Colonna, Carlo Cracco, Alessandro Gilmozzi, Alfonso e Livia Iaccarino, Antonia Klugmann, Pietro Leemann, Paolo Marchi, Rosanna Marziale, Aurora Mazzucchelli, Norbert Niederkofler, Davide Oldani, Simone Padoan, Franco Pepe, Alessandro Pipero, Niko Romito, Marco Sacco, Francesco e Salvatore Salvo, Giorgio Scarselli, Pasquale Torrente, Cristoforo Trapani e Viviana Varese. 

In questa occasione, siamo lieti di annunciare le prime tre aziende che hanno aderito al Club dei Partner, che ringraziamo per il loro significativo contributo. Vini Allegrini della Valpolicella, offrirà i suoi rossi e bianchi pregiati per esaltare i piatti che gli chef ambasciatori prepareranno durante le tre giornate e CHS Group Forniture fornirà tutte le stoviglie necessarie per poterle gustare. E infine, Berlucchi ci accompagnerà nei tre giorni con le sue bollicine, per brindare insieme.


Alberto Capatti: «La cucina è un luogo di immaginazione»

Dal 12 febbraio il professor Alberto Capatti, storico della cucina e della gastronomia nonché fino al 2011 rettore dell’Università di Scienze Gastronomiche di Pollenzo e Benemerito dell’Associazione Italiana Ambasciatori del Gusto, è il presidente della Fondazione Gualtiero Marchesi. A lui la famiglia Marchesi, ha affidato il compito di portare avanti l’eredità del Maestro, emblema della nascita della “nuova cucina italiana”.

Un compito che Capatti sta interpretando con grande responsabilità perché, molto più di altri, è consapevole che quella di Gualtiero Marchesi «è la storia dell’alimentazione dagli anni Ottanta ad oggi, vissuta da lui con le dita al lavoro, con la parola, con la scrittura e con la musica, e l’immediato futuro, con cui la Fondazione deve misurarsi», ha spiegato subito dopo l’investitura.

Professor Capatti come sta interpretando questa presidenza della Fondazione Marchesi?

«Il mio ruolo arriva, dopo un periodo abbastanza lungo in cui Marchesi aveva diretto la Fondazione ispirandosi alla sua esperienza non solo culinaria, ma di tutte le sue cognizioni artistiche e filosofiche necessarie per valorizzare la cucina cucinata facendone un artifizio di alto valore. Si è trattato di un periodo in cui la riflessione di Marchesi sulla propria opera e sulla sua portata è stata fondamentale. Questo nuovo periodo si apre, al contrario, sulla commemorazione che vuol dire togliere la parola a chi ha pensato e agito e dare vita a un discorso sostitutivo. Una commemorazione che va fatta anche nei debiti modi: il 19 marzo, per esempio, ci sarà un evento, non solo milanese, in cui sarà presentato un film su Gualtiero Marchesi e promossi alcuni dei suoi piatti come il risotto oro e zafferano in un banchetto».

Andando al di là di questa commemorazione classica…

«Sono due gli obiettivi. Da un lato rendere la vita di Marchesi stesso dagli anni 50 a oggi come una periodizzazione significativa della nostra cultura alimentare e quindi di indagare questa storia  dell’alimentazione contemporanea. Dall’altro rivolgersi alla cucina presente il cui attore e ispiratore fondamentale è il cuoco. Dire cuoco significa, però, evocare anche le mansioni sostitutive della professionalità quando parliamo, ad esempio, del cuoco casalingo senza dimenticare le altre persone che operano nella gestione. Sotto il profilo storico-culturale, invece, si deve attualizzare tutto il fenomeno della cucina».

Parlando di cucina qual è il valore del “Fattore umano”, tema scelto dal Congresso “Identità Milano 2018”, in questo momento storico?

«La cucina è sempre stata un luogo dove ogni oggetto (dalla pentola a qualsiasi utensile) parla il proprio linguaggio e, nello stesso tempo, è da sempre un luogo in cui ogni cuoco visualizza il proprio piatto cercando di renderlo possibile. Quindi un luogo di immaginazione e di operazione che non può esistere senza la combinazione di questi due elementi. Il valore del fattore umano, quindi, è tutto a partire dall’ideazione degli utensili fino al concepimento dei piatti».

Esiste una discrepanza tra un certo narcisismo della figura del cuoco rispetto alla “sostanza” del piatto?

«Più che una discrepanza direi che il processo immaginario che sta alla base del fare cucina anche nella dimensione quotidiana di preparare un semplice spaghetto al pomodoro si presta a moltiplicazioni infinite. Più che una discrepanza, in realtà, parlerei di una sorta di enfatizzazione costante nell’immaginazione dell’oggetto culinario stesso. Naturalmente i media hanno avuto un ruolo importante in questa enfatizzazione, ma l’uomo nella sua storia non ha mai finito di immaginare. Anche quando, negli anni 80, la televisione si occupava poco della cucina con un’unica trasmissione “A tavola alle 7” in cui Luigi Veronelli e Ave Ninchi dialogavano facendo una cucina, per così dire, modesta e gli storici, al contrario, magnificavano la realtà impossibile dei grandi banchetti rinascimentali fatti di centinaia di portate costruite da cuochi di cucine principesche, alla ricerca di un valore originario fondatore della cucina italiana».

Oggi la cucina italiana come si pone rispetto alle grandi cucine europee di tradizione come quella francese o d’avanguardia come quella spagnola?

«Mi piace pensare alla cucina italiana dal basso e non dall’alto. In Italia la pasta, la pizza e il panino costituiscono una sorta di imperialismo globale con un solo principio nutritivo che è la farina – disponibile dappertutto – con il quale si costruiscono oggetti alimentari diversi. Ecco io partirei da qua».

Mariella Caruso