La cucina è intenzione e dono creativo di ogni chef

“In cucina funziona come nelle più belle opere d’arte: non si sa niente di un piatto fintanto che si ignora l’intenzione che l’ha fatto nascere”, scriveva Daniel Pennac.

Ed è proprio questa intenzione, questo impulso a creare, ad approfondire l’energia, il ruolo e l’emozione che la cucina sa regalare, il motore che muove la filosofia alla base di noi JRE Italia, Ambasciatori del Gusto, CHIC e Le Soste. Non solo associazioni, piuttosto famiglie composte da chef uniti nei valori e negli intenti.

Il nostro obiettivo è da sempre quello di trasmettere quanto anche quella che viene definita “alta cucina” o meglio ancora “la grande cucina italiana di qualità” sia tradizione, cultura, studio, sperimentazione e ricerca, una ricerca che spesso va oltre la semplice apparenza di un piatto, che necessita di un passo in più verso la comprensione della sfera inventiva propria di ogni chef. Si tratta di un viaggio del gusto che prende significato, che si comprende e ricorda nel suo insieme di sensazioni.

La cucina italiana è un’arte che nasce dalle radici di ogni territorio e ci ha permesso di essere conosciuti in tutto il mondo. Sono le tradizioni più profonde che descrivono l’essenza popolare e contadina del nostro Paese, che ci hanno resi famosi. Ma, come tutte le arti, anche quella gastronomica ha sviluppato una strada alternativa, un’evoluzione che dalla cultura originaria è partita per creare emozionalità nuove: si chiama cucina italiana di qualità.

Valutare senza una conoscenza approfondita questa spinta creativa significa danneggiare l’eccellenza culinaria italiana, quella che ci ha reso grandi a livello globale e che tutt’ora ci permette di essere identificati come punti di riferimento. Perché è stato proprio anche lo sviluppo della cucina italiana di qualità a dare un contributo significativo all’Italia in ambito culturale e turistico, portando i viaggiatori verso luoghi meno noti proprio grazie alla sua intensità comunicativa.

Questo è il linguaggio che ci appartiene e con cui parliamo a chi ha voglia di ascoltarci.

E questo è il nostro concetto di cucina italiana di qualità: una cucina che narra storie, che si forma sulla padronanza di tecniche e ingredienti, che provoca sé stessa per superarsi e raggiungere livelli differenti ancora più complessi. È amore, fatica, coraggio, dedizione, follia e gioia creativa.

Ci vogliono occhi e palati attenti per intravederne le sfaccettature, per guardare oltre ciò che ci si aspetterebbe, ma è proprio qui che risiede il segreto di quel passo in più utile a scoprire “l’intenzione”. Ed è in quel passo che risiede la nostra missione come operatori della ristorazione.


Street food, la trasformazione del cibo di strada tra opportunità e rischi

Street food: cibo tradizionale, specialità gastronomica tipica della cucina locale, regionale, etnica, che si consuma spesso passeggiando, anche in occasione di fiere e manifestazioni popolari. È questa la definizione con la quale la Treccani ha inserito nel 2008 nel proprio vocabolario il neologismo “street food”. Nel decennio trascorso da allora lo street food è cresciuto diventando una moda: l’Italia pullula di manifestazioni che lo richiamano. Giovedì 30, per esempio, è la volta di Straordinario, festival gastronomico di street food nato da un’idea dell’Ambasciatore del Gusto Andrea Graziano e di Barbara e Marco Nicolosi della tenuta Barone di Villagrande in programma a Milo, sulle pendici dell’Etna, giunto alla sua quarta edizione.

Cos’è oggi lo street food? «Attualmente c’è in atto una ricerca di semplicità rispetto a ciò che offre il mondo della gastronomia. Per questo lo street food, che per definizione è un cibo di facile consumo che riconcilia con il territorio e la tradizione, viene interpretato trasversalmente con più contaminazione. Qualcosa che va oltre e che mette fianco a fianco grandi chef e giovani promesse», osserva Graziano che a Straordinario, tra i venti chef, ha chiamato, tra gli altri, anche Ambasciatori del Gusto: il panettiere peloritano Francesco Arena, il pizzaiolo romano Gabriele Bonci e quello veneto Simone Padoan e il campano Pasquale Torrente, che a Cetara all’Osteria Al Convento ha affiancato una “cuopperia” gestita con il figlio Gaetano.

Qualità da asporto. «Tutti ormai sembrano essersi dedicati allo street food, ma a fare la differenza sarà sempre la grande tradizione di qualità: panino al lampredotto, arancino, pizza fritta», sottolinea Torrente pronto a porre il suo veto su tutto ciò che, a suo parere, street food non è. «Non me ne voglia chi spaccia per cibo da strada altre preparazioni, in quel caso si tratta di una questione economica perché non c’è dubbio che un assaggio gourmet si gusta meglio seduti al tavolo di un ristorante», continua lo chef che ha tra i suoi must lo spaghetto con la colatura di alici.

Intramontabili classici. «Oggi c’è la tendenza a trasformare qualunque piatto in pietanza da street food. Questo sta facendo perdere il contatto con ciò che è davvero il cibo da strada, qualcosa che può cuocere semplicemente dalla forte caratterizzazione territoriale», osserva Arena pronto a ricordare “taiuni” («l’ultimo tratto dell’intestino bovino, il digiuno») e “virina” («un taglio delle mammelle della mucca»), classici dello street food peloritano. «Ogni luogo ha le sue tradizioni che, quando questa rivoluzione passerà, spero si rinnovino perché sono una ricchezza».

Cibo d’apparenza. Dalla Sicilia al Veneto con Simone Padoan il cui concetto di street food è legato a doppia mandata ai cicchetti veneziani. «Cibo rurale povero “mordi e fuggi”, utile per accompagnare un bicchiere di vino o un aperitivo: l’uovo sodo, un pezzo di polenta fritta che fa pare della cultura del luogo. Oggi mi pare che ci stiamo facendo molto trascinare dalle cose fino a far diventare street food quelli che non lo è», riflette Padoan. «Purtroppo tornare indietro sarà molto difficile perché la cultura è cambiata – ammette il maestro pizzaiolo veneto -. Però non bisogna demonizzare tutto di questo nuovo street food che sta diventando l’anello di congiunzione tra la gente e gli assaggi gourmet che, con questa formula, diventano alla portata di tutti». Il rovescio della medaglia, però, è «che questo street food diventi una cosa da fighetti col rischio – conclude Padoan – che diventi solo un modo per riempirsi la bocca fatto di tanta apparenza e poca sostanza».

Mariella Caruso


Il giovane Nikita Sergeev, originario di Mosca: «La mia cucina italiana dall'acidità spinta»

Con Nikita Sergeev torniamo a parlare di Ambasciatori del Gusto stranieri che interpretano la cucina italiana.

Non fosse stato per una laurea in Scienze politiche non riconosciuta in Italia, forse oggi in Italia avremmo uno chef in meno e un impiegato in più. A cambiare la vita di Nikita Sergeev, chef de L’Arcade di Porto San Giorgio, infatti, è stata la scoperta che quel titolo di studio conseguito a Mosca, «con Erasmus a Firenze», in Italia non valeva alcunché. «Non ero pronto ad altri tre, quattro anni di studio per far convalidare la laurea. Non volevo più pesare economicamente sulla famiglia, così a 22 anni decisi di puntare su quello che fino a quel momento era un hobby: la cucina. Cercai una scuola e trovai l’Alma di Colorno. A quel tempo, però, non sapevo nemmeno chi fosse Gualtiero Marchesi. Avevo letto che era il rettore e immaginavo fosse un grande chef», racconta Nikita Sergeev.

Nato a Mosca e cresciuto nel mondo Nikita Sergeev è uno che non vuol sentire parlare di frontiere, né territoriali né gastronomiche. «Per via del lavoro dei miei genitori la mia è stata una famiglia di girandoloni, abbiamo vissuto in Danimarca e Germania e questo mi ha aperto gli occhi. Dell’Italia ci siamo innamorati visitandola da turisti», racconta Sergeev, classe 1989, che si è stabilito nel nostro Paese da una quindicina d’anni e ha scelto le Marche come casa per sé e per il suo ristorante. «Come attesta il diploma di cuoco preso all’Alma di Colorno, però, sono un cuoco di cucina italiana», rivendica l’Ambasciatore del Gusto.

Quindi il suo approccio alla cucina è stato all’insegna dell’italianità…

«Professionalmente parlando sì. Poi naturalmente nella mia cucina c’erano sempre delle contaminazioni con la cucina russa di mamma e nonna. Quindi anche se sono straniero in Italia, paradossalmente mi considero strettamente un interprete della cucina italiana».

Com’è cominciata l’avventura de L’Arcade?

«Dopo il diploma all’Alma, nel 2013, per avere il permesso di soggiorno ho aperto L’Arcade. E sono ancora qua».

C’è qualcosa di russo nella sua cucina?

«Nei ricordi e nei sapori ce n’è tanta. Parlando con i clienti, però, ho scoperto di avere un palato diverso, più incline a certe acidità che non sono proprie di un italiano medio. Per esempio sono abituato alle fermentazioni che solo adesso stanno prendendo piede in Italia come novità assoluta, ma per me fanno parte della tradizione. Per me è interessante poter proporre una cucina italiana vicina al mio palato che ama l’acido e l’amaro ed è un po’ lontano dalle dolcezze. Tutto il contrario del mio carattere che, invece, è molto dolce».

Cosa propone di fermentato nella sua carta?

«Diversi piatti. Tra questi anche una tartare di gamberi rosa dell’Adriatico servita su un dripping di estratti di diverse verdure fermentate: rape, carote, sedano e, nella stagione invernale, anche broccolo. Andando oltre il fermentato, un altro ingrediente che propongo è il cavolfiore crudo che per consistenza, gusto e piccantezza trovo eccezionale. Anche questo, però, non è usuale in Italia: se ne comincia a parlare solo perché Niko Romito ha cominciato a usarlo».

Per sua ammissione la sua è una cucina d’ingrediente. Cosa intende?

«Io voglio che i miei piatti si facciano ricordare per la definizione dei sapori. Se mette il cavolfiore voglio che il cliente lo riconosca, se non accade è una mia sconfitta. Per questo utilizzo pochi ingredienti che, oltre tutto, devono rispecchiare il territorio: il mio è un ristorante sul mare e voglio esaltare il mare».

Qual è l’ingrediente che predilige?

«Il pesce. Tra quelli nobili amo il rombo, tra i poveri lo sgombro».

Oggi si sente più russo o più italiano?

«Mi sento cittadino del mondo, ma mi sto italianizzando molto pur senza dimenticare le mie radici».

Mariella Caruso


Il Sud che vince: Andrea Graziano e il caso Fud

Andrea Graziano non è uno chef. È un imprenditore del cibo, di quelli appartenenti alla categoria di chi non si accontenta. Catanese, vulcanico e visionario, Ambasciatore, oltre che del Gusto, anche della gastronomia pop di alta qualità, Graziano ha cominciato nel 2002 con una pizzeria, Il sale art café aperta nell’ex galleria d’arte di famiglia e venduta all’inizio del 2018, e ha proseguito (in tempi non sospetti) con il blog Caponata web. «A stupirmi – rivela Graziano – in un periodo in cui ancora non si parlava di social, fu la forza della distribuzione dei contenuti del blog riguardanti i tanti ristoranti che visitavo».

Nel 2012, poi, arriva Fud, una panineria con bottega in cui tutto, dal gergo alle materie prime «tutte siciliane, accuratamente selezionate e acquistate direttamente dai produttori», è frutto di un’attenta strategia in cui marketing e qualità fanno rima con una visione precisa di imprenditorialità. Non è un caso che dopo Fud sia nato Fud Off (un tapas bar sempre a trazione siciliana) e che, da Catania, il format Fud sia stato esportato, con la complicità di Vittorio e Saverio Borgia, altri due Ambasciatori del Gusto, prima a Palermo (dove dall’inizio di giugno è stato anche declinato in Fud Bocs, panineria con specialità di mare) e poi a Milano dove, Fud, dall’inizio di luglio ha preso casa nei pressi del Naviglio Grande.

«Non considero quello che sono riuscito a creare un’impresa, ma un network di persone: agricoltori, allevatori, casari, produttori di salumi, di vino, di birra e non solo che, insieme, raccontano un territorio», spiega Graziano. «Questo territorio è la Sicilia che lavora, non quella stereotipata. Da Fud e tutti i suoi spin-off non ci sono coppole o tarantelle, ma gente che s’impegna. Da noi a fare la differenza è il fattore umano», continua l’imprenditore raccontando di quei primi 50 produttori coinvolti nel progetto passati «dall’avere i magazzini pieni a non riuscire a star dietro ai volumi sviluppati dall’esplosione di Fud. Sono orgoglioso perché il successo di Fud è anche quello di tante aziende siciliane che, oggi, hanno moltiplicato la loro produzione. Gli stessi che ci stanno seguendo anche a Milano dove noi non stiamo andando a cercare fortuna, ma a far conoscere le nostre eccellenze».

Oggi solo Fud Catania occupa 46 dipendenti «tra cui giovani ex detenuti grazie a un progetto con l’amministrazione carceraria, nonché rifugiati e richiedenti asilo di 15 etnie diverse per effetto di contatti con alcune associazioni». A questi si aggiungano i dipendenti dei due locali Fud Palermo e Fud Bocs e quelli di Fud Milano.

«Selezioniamo il personale prediligendo il loro senso dell’accoglienza e la capacità di capire le esigenze dei clienti e ci occupiamo direttamente della formazione con corsi che non si limitano al cibo, ma si allargano al vino e all’analisi sensoriale, all’inglese per il food, ai social network fino alle “gite sociali” durante le quali visitiamo insieme le aziende dei nostri produttori», continua Graziano.

«Da imprenditore sono convinto che l’offerta stimola la domanda, che i format vanno bene ma non bisogna mai fermarsi. Per me sarebbe stato facile, per esempio, raddoppiare Fud a Catania. Invece ho preferito dedicarmi a Fud Off, un posto in cui la cucina sperimentale e fuori dagli schemi di Valentina Chiaramonte è lo specchio di quello di un movimento che pur allontanandosi dai formalismi dell’alta cucina ci si avvicini per qualità e proposta», sottolinea l’Ambasciatore del Gusto.

«Secondo me in un momento in cui si parla di food come mai prima è importante parlare di fattore umano – conclude – e gli Ambasciatori sono il fattore umano che sta dietro la ristorazione e può dare voce alle eccellenze».

Mariella Caruso