L'anguria, regina dell'estate anche in tavola

Che estate sarebbe senza anguria? Decisamente triste. L’anguria, o cocomero che dir si voglia, o ancora citrone, popone, mellone, muluni e le altre decine di nomi dialettali con cui spostandosi lungo lo Stivale viene identificata, è il simbolo dell’estate. Come cetriolo, zucchine e melone, anche l’anguria è una pianta della famiglia delle cucurbitacee, ma il rosso della sua polpa soda ha un appeal decisamente diverso. Amata da tutti, a patto di non essere incorsi in qualche mal di pancia per eccesso di consumo, aiuta a combattere il caldo, la stanchezza cronica ed è buonissima da mangiare al naturale, preferibilmente fredda.

Parlare, però, di anguria (Citrullus lanatus) è una generalizzazione. Le varietà coltivate di questo frutto, conosciuto sin dal tempo degli egizi che in Italia è un dono dell’invasione moresca in epoca medievale, sono almeno una cinquantina. Senza contare le tante (nuove) sementi frutto della ricerca che vengono immesse sul mercato. In Italia alcune varietà come il cocomero pontino, l’anguria di Gonnos o Gonnosfanadiga e l’anguria di Siracusa sono Pat, ovvero prodotti agricoli tradizionali italiani inseriti nell’elenco del Mipaaft. E la promozione passa anche dall’alta ristorazione. Lo chef Simone Nardoni, per esempio, ha interpretato il cocomero pontino nel corso delle iniziative di promozione sotto forma di Carpaccio di cocomero, gazpacho e Riso in bianco con caprino e anguria locale.

Indubbio, poi, che l’anguria evochi ricordi di serate estive e sortite nei chioschi degli “angurai” (figura mitica anche se il vocabolario non fa cenno della definizione) che stanno via via scomparendo. Ma la stessa ha anche molte declinazioni gourmet. Qualche anno fa era balzato agli onori delle cronache il costosissimo prosciutto di anguria affumicata di Duck’s Eatery a New York, ma Davide Oldani proponeva di farlo arrosto in padella per un’insalata ferragostana estiva già nel 2012. Negli archivi gastronomici degli chef ci sono le Mazzancolle, bitter e cocomero di Gianluca Gorini, l’Anguria e tonno con timo lime di Antonio Pisaniello e l’ostrica virtuale di Davide Scabin la cui base è un cubetto di anguria che con bottarga di muggine e mandorla tostata ricordava il sapore del mollusco. Tra le interpretazioni gourmet di questo frutto ci sono anche il classico Cocomero e pomodoro di Niko Romito, il Biscotto di parmigiano e anguria di Daniel Canzian, l’Anguilla/anguria di Takeshi Iwai. Ma il must dell’estate 2019 è il boccone di Anguria Acetata, con aceto di vino bianco, pepe nero e peperoncino, di Floriano Pellegrino.

Mariella Caruso


Diminuiscono i campi di grano, aumenta la sensibilità

Nell’Italia in cui c’è sempre maggiore attenzione per la produzione di pane e pasta con farine di qualità come quelle di Felicetti e Pastificio dei Campi, la superficie destinata al re dei cereali continua a diminuire, seppur con una sostanziale differenza tra quella destinata al grano tenero che continua a crescere e quella votata al grano duro che, al contrario, diminuisce. In dieci anni la superficie totale coltivata a grano è calata di quasi mezzo milione di ettari passando dai 2.289.051 ettari del 2008 agli attuali 1.821.725. La produzione, invece, si è ridotta in dieci anni di quasi due milioni di tonnellate attestandosi a poco più di 7 milioni di tonnellate contro le quasi 9 milioni del 2008. L’Italia è al 21° posto tra i produttori mondiali nella classifica 2018 della Fao che vede in testa Cina, India e Federazione Russa. Classifica che cambia notevolmente se si tiene in considerazione soltanto la produzione di grano duro perché, in quest’ultimo caso, l’Italia è seconda dietro al Canada, paese quest’ultimo forte di un raccolto di 38 milioni di tonnellate.

A disincentivare il lavoro dei contadini è la remunerazione che non supera i 185 euro a tonnellata anche a causa delle importazioni nel nostro Paese. A aumentare, però, è la coltivazione dei cosiddetti grani antichi. Secondo i dati diffusi a fine 2018 dall’Aidepi 5000 ettari sono coltivati a “grani antichi” con un aumento del 400%. Più che di grani realmente antichi, nel senso stretto del termine, in molti casi è più corretto parlare di grani autoctoni, ovvero di varietà che nel tempo erano state soppiantate. Se del Timilia e del Russello, che è un grano tenero, c’è traccia negli antichi scritti, il Senatore Cappelli ha da poco festeggiato i suoi primi cento anni. Sono tante, di fatto, le varietà che i contadini hanno messo a dimora perché, nonostante la resa per ettaro più bassa del convenzionale, le varietà sono più resistenti, possono essere coltivate biologicamente e se ne ricava grano per farine di qualità superiore come quelle del Molino Quaglia e del Molino Rachello.

Tra le varietà piantate nei campi di Galati Mamertino, Comune del Nord-est dei Monti Nebrodi, in seno a un progetto in cui sono stati coinvolti gli Ambasciatori del Gusto siciliani Pasquale Caliri, Francesco Arena e Lillo Freni ci sono oltre il Senatore Cappelli e il Russello, anche Perciasacchi, Bufala Nera e Maiorca. «Siamo stati chiamati a dare una mano a questo progetto di rinascita di alcuni terreni incolti da un centinaio d’anni da Giacomo Emanuele, un ex apicoltore che ha visto morire tutte le sue api probabilmente a causa dei prodotti chimici utilizzati nei campi. Abbiamo partecipato alla semina, abbiamo visto crescere il grano e partecipato alla mietitura. Personalmente ho imparato moltissimo perché conoscere le cose attraverso i libri e toccarle con mano è tutta un’altra cosa. È stato emozionante ascoltare i racconti della semina dalla voce degli anziani contadini», racconta Caliri che, così come gli altri Ambasciatori, utilizzerà parte di quelle farine per alcune delle loro preparazioni.

A utilizzare le farine che ricava dai grani coltivato negli undici ettari di terreni di famiglia che si estendono nei pressi della pizzeria di cui è patron e maestro pizzaiolo è l’Ambasciatore del Gusto Antonio Polzella. Siamo a Rosignano Marittimo, in provincia di Livorno. «Coltivo farro monococco e tre tipi di grani antichi: il Senatore Cappelli e due originari di questa zona, il Gentil Rosso e il Verna», ci dice Polzella che va oltre la coltivazione. È in un piccolo molino a vista all’ingresso del suo locale, infatti, che il grano che coltiva viene trasformato in farina per diventare ingrediente principale di alcune delle sue pizze. «Inizialmente – continua – non mi occupavo della molitura del raccolto, poi ho deciso che volevo fare tutto da me in modo da occuparmi personalmente di tutto il processo per una pizza a chilometro zero e, in particolar modo per l’orgoglio di poter essere un pizzaiolo-contadino».

Mariella Caruso


Luca Fantin: «La mia cucina italiana a Tokyo è questione di gusto»

Cosa significa fare cucina italiana all’estero? È imprescindibile l’utilizzo di ingredienti italiani affinché questa cucina possa dirsi autentica? Perché l’alta cucina francese ha sempre goduto di una posizione privilegiata rispetto a quella italiana, spesso identificata soltanto con il binomio pasta e pizza? L’abbiamo chiesto all’Ambasciatore del Gusto Luca Fantin. Lo chef veneto, formatosi nelle cucine di Carlo Cracco e Gualtiero Marchesi, passato per l’Akelarre di Pedro Subijana e per il Mugaritz di Andoni Luis Aduriz e poi sous chef di Heinz BeckLa Pergola, dal 2009 è alla guida del Il Ristorante nella Bulgari Ginza Tower di Tokyo che nel 2015 cambia nome in Il Ristorante Luca Fantin proprio in onore al professionista italiano.

«Parlare di ristorazione italiana all’estero è molto complesso perché noi italiano non siamo bravi come i francesi nel valorizzare la nostra cucina», sottolinea Luca Fantin che abbiamo incontrato a Care’s, evento co-organizzato dall’Ambasciatore del Gusto Norbert Niederkfler.  «All’estero i grandi della cucina francese, da Robuchon a Troisgros, da Ducasse a Gagnaire, hanno portato la loro identità. L’immagine della cucina italiana, invece, forse a causa dei tanti cuochi con poca reale esperienza che hanno esportato piatti più comprensibili – continua – è molto legata a spaghetterie e pizzerie che, nell’immaginario di chi non è italiano, rappresenta in toto la gastronomia di casa nostra». «Arrivare in un Paese di alta cultura gastronomica come il Giappone e cercare di ristabilire i confini della cucina italiana non è stato facile – argomenta -. A Tokyo molti grandi ristoratori italiani sono dovuti tornare sui propri passi perché, probabilmente, non conoscendo bene il territorio hanno riprodotto la loro cucina trovando difficoltà a farsi capire dai nipponici».

Come hai fatto a superare questo gap?

«Nei primi due anni a Tokyo ho avuto l’ossessione di utilizzare prodotti di altissima qualità – vini, oli, formaggi, verdure e carni – che facevo arrivare dall’Italia. Continuavo però a farmi domande perché nella mia cucina non trovavo una vera soddisfazione che, invece, provavo quando andavo a mangiare nei ristoranti tradizionali giapponesi. A quel punto mi sono fatto un esame di coscienza e, non riuscendo a capire qual era la direzione da prendere, ho parlato con Seiji Yamamoto, un amico chef con tre stelle Michelin a Tokyo che ha un culto per ingredienti e stagionalità ed è  in procinto di aprire una sua insegna a Hong Kong. Gli ho chiesto come avrebbe fatto a riprodurre la sua cucina senza i suoi ingredienti e lui, con gran naturalezza, mi ha detto che aveva fatto una ricerca sul territorio fino a trovare materia prima che, in alcuni casi, era superiore a quella da lui utilizzata a Tokyo. Questa chiacchierata ha cambiato il mio approccio alla questione».

Quindi adesso utilizzi prodotti giapponesi?

«Non esclusivamente, ma la maggior parte sono ingredienti locali. A essere fondamentale è stata la ricerca che ho fatto in prima persona. Ho abbandonando gli intermediari, ho cominciato a studiare le specialità delle varie regioni, ho preso accordi con le amministrazioni che sono sempre molto collaborative e nel giorno di chiusura del ristorante ho cominciato a visitare uno per uno i piccoli produttori e gli artigiani che fanno materie prime di qualità. Dopo due anni di ricerca avevo tantissimo materiale tanto da scriverci un libro».

Come definiresti la tua cucina attuale?

«Una cucina italiana contemporanea fatta con ingredienti stagionali giapponesi che esistono nella cucina italiana (non utilizzo tofu o yuzu, per intenderci) lavorati con un mix di tecnica italiana e giapponese. La mia cucina, però, mantiene il gusto italiano che è l’unico metro per riconoscere la nostra cucina».

Ci spieghi meglio?

«In Italia le ricette e le tradizioni cambiano da regione in regione, anzi di campanile in campanile. Il gusto, però, è ben identificabile. Se invece di utilizzare un pomodoro dell’Etna o del Vesuvio, la cui caratteristica è la mineralità, ne utilizzo uno giapponese dal sapore simile e lo condisco con olio d’oliva e basilico giapponese, mangiandolo ad occhi chiusi sono in Italia. Se lo stesso pomodoro lo condisco con salsa di soya e shiso, che è un’erba giapponese simile al basilico, sono in Giappone».

Quindi sei d’accordo sul fatto che bisogna codificare il gusto italiano e non la cucina italiana.

«Assolutamente, in particolare nel fine dining il cui intento è proporre un’esperienza gastronomica, non piatti tradizionali come lasagna, parmigiana, gnocchi, tortelli di zucca o zuppa di cipolla. Però il problema esiste: quando arrivai in Giappone mi chiesero che cucina italiana facessi, se del Nord o del Sud; in quel caso io risposi fermamente che la mia non era una cucina regionale. Naturalmente tutto cambia quando si parla di piatti casalinghi, in quel caso per me non serve altro che uno spaghetto al pomodoro e una bruschetta».

Come si concilia tutto questo con i prodotti identificativi dell’enogastronomia italiana come le Dop o alcuni formaggi, il riso e la pasta?

«Quello è un discorso diverso e riguarda l’eccellenza non replicabile di cui fanno parte paste secche, formaggi o riso che, per un risotto di ottima qualità, deve essere italiano. Io, per esempio, ho provato una cinquantina di risi giapponesi, ma nessuno mi ha dato la resa di un Carnaroli. E per la mantecatura non posso prescindere dal formaggio italiano».

Mariella Caruso


Tutti devono leggere l’etichetta, anche i cuochi

“Leggere attentamente l’etichetta” è un monito che, a intervalli regolari, viene ricordato. Ma se è automatico farlo con i farmaci, non è lo stesso con gli alimenti. Invece bisognerebbe sempre leggere l’etichetta per conoscere il prodotto che si sta acquistando. Questo comportamento utile al consumatore finale è quanto mai necessario per i ristoratori che utilizzano quelle materie prime per preparare i loro piatti.

LE INDICAZIONI IN ETICHETTA. Denominazione, durabilità, elenco degli ingredienti, paese d’origine e luogo di provenienza, condizioni di conservazione ed uso, nome e ragione sociale del produttore, quantità al netto, presenza di allergeni e dichiarazione nutrizionale sono gli elementi obbligatori da indicare in etichetta.

PERCHÉ LEGGERLA? «Perché solo conoscendo le informazioni sul prodotto che si appresta a lavorare è possibile per un cuoco fare scelte attente e consapevoli sui piatti», sottolinea Lisa Casali, scienziata ambientale, blogger e scrittrice da sempre attenta alla cucina sana. «La lista degli ingredienti in etichetta è indicata in ordine di percentuale di presenza nella composizione. Questo è un elemento che, pur apparentemente scontato – spiega Casali – dà molte indicazioni perché fotografa il contenuto di sale, zucchero, conservanti e/o altri tipi di additivi. Conoscere queste informazioni permette a tutti di fare scelte attente. La conoscenza diventa indispensabile, poi, per chi vuole fare una cucina attenta alla salute, all’etica o alle tematiche ambientali».

I SEMILAVORATI. «Anche se molti cuochi non amano ammetterlo, nel mondo della ristorazione si fa largo uso di prodotti già trasformati – continua la scienziata -.  In questo caso è ancora più importante leggere le etichette. Si può scoprire, per esempio, che prodotti che il marketing propone come a base di frutta e verdura, magari contengono appena il 10% di queste ultime essendo, di fatto, ben poco naturali».

IL “MADE IN ITALY”. «Altra informazione importante contenuta nell’etichetta è il luogo di produzione e/o di trasformazione del prodotto. Le normative, però, permettono una certa flessibilità a chi trasforma materie prime provenienti dall’estero. In molti casi si possono indicare come “Made in Italy” prodotti che sono solo trasformati in Italia pur con l’utilizzo di materie prime non italiane», continua. In questo caso, argomenta la blogger di Ecocucina, «a fare la differenza è solo la sensibilità dello chef. È quest’ultimo, infatti, può prendersi l’onere di verificare la filiera perché per conoscere davvero quali materie prime ci sono all’origine del prodotto bisogna spingersi oltre quanto scritto in etichetta. L’esempio più banale riguarda il pomodoro pelato o la passata di pomodoro utilizzata da tutti». Va da sé, sottolinea, «che, per poter verificare la filiera l’ideale è scegliere un prodotto a filiera corta».

LE CERTIFICAZIONI. «Un’altra questione è quella delle molte certificazioni: ci sono quelle di origine, spesso rilasciate da un ente terzo, quelle del biologico e del biodinamico. In merito a Dop e le Igt è bene ricordare che di solito recano un codice, se non è presente c’è qualcosa che non va. Per quelle del biologico o del biodinamico che sono un valore aggiunto è bene fare una verifica sull’affidabilità dell’ente terzo che l’ha rilasciata», ricorda Casali. Più complicati, invece, «sono i casi, purtroppo non isolati, di simil-certificazioni inesistenti che hanno il solo scopo di trarre in inganno essendo azioni di puro marketing».

COSA DOVREBBE CHIEDERE IL CLIENTE AL RISTORATORE? Innanzitutto il libro degli ingredienti che è obbligatorio. Ma il ristoratore può andare oltre. «Ci sono già molti ristoratori che indicano l’origine dei prodotti rendendo pubblica la lista dei produttori dai quali si approvvigionano. In questo caso la massima trasparenza dà al cliente la possibilità di sapere esattamente cosa troverà nel piatto», spiega Casali. «Il cliente, a sua volta, deve essere esigente e non abboccare agli slogan. Deve leggere con attenzione la lista dei produttori se è presente. Approfondire in caso di riferimento a presìdi Slow Food e/o certificazioni mai sentite. Stiamo sovrasfruttando le risorse ittiche per cui è importante prestare attenzione alle proposte di pesce in carta, informandosi sulla specie, razza, provenienze e, se si vuole essere pignoli, anche la taglia di quello che si troverà nel piatto».

Mariella Caruso


Il Riso d’Italia: dal risotto all'arancino un viaggio attraverso i suoi piatti simbolo

Risotto, supplì, riso patate e cozze, sartù, arancina o arancino… giusto per non scontentare alcuno. Ovvero il riso raccontato attraverso alcune delle tante declinazioni gastronomiche che ne fanno un ingrediente privilegiato della cucina italiana. Dal Nord al Sud non c’è regione che non abbia un piatto tradizionale con protagonista il riso. Ricette tramandate, spesso, da generazione in generazione che, però, con una maggiore conoscenza del riso possono andare oltre i grandi classici.

La selezione dei COSTARDI BROS. Ne sanno qualcosa gli Ambasciatori del Gusto Christian e Manuel Costardi. Al ristorante Christian e Manuel dell’Hotel Cinzia a Vercelli, infatti, il risotto è una tappa irrinunciabile della carta. «Il risotto si può preparare con tante varietà di riso, tutte quelle che hanno un buon rilascio di amido in cottura: Baldo, Sant’Andrea, Arborio, Carnaroli. È ovvio che, poi, con ogni riso si ottengono risultati diversi ed è indubbio che il segreto per un buon risotto è partire da un ottimo riso», osserva Christian. Il riso utilizzato dai fratelli Costardi è un Carnaroli griffato dagli stessi chef, «frutto di un lavoro cominciato nove anni fa che – spiega lo chef – ci garantisce consistenza, tenuta di cottura e la croccantezza che vogliamo mantenere nei chicchi». Ovviamente, continua Costardi, «noi non abbiamo lavorato sulla coltivazione perché non abbiamo questo tipo di conoscenze e capacità, ma siamo intervenuti successivamente perché sappiamo qual è il livello di sbramatura che vogliamo e qual è la percentuale massima di rottura o di chicchi diversi accettabile per un risotto perfetto». Tutto il riso Carnaroli utilizzato dai Costardi Bros è italiano. «Naturalmente ci sono risi non italiani di ottima qualità come Basmati, Thai, Indica adatti a lavorazioni diverse dal risotto. È ovvio, però, che l’eccellenza del riso italiano fa sì che la nostra scelta ricada sempre su quello. Inoltre noi siamo cresciuti in un territorio che fa parte del triangolo d’oro per questa coltivazione, un po’ come è Modena per la Ferrari».

ARCANGELO DANDINI tra supplì e risotto. La cucina capitolina sublima il riso nel supplì. «Una preparazione in cui il riso “risottato”, condito, lasciato freddare, messo in forma con la mozzarella all’interno è, infine, panato e fritto», attacca Arcangelo Dandini, quinta generazione di ristoratori capitolini, patron de L’Arcangelo. Lo chef classe 62, però, non tralascia altre preparazioni come le minestre di riso, «con piselli o con patate, per esempio», e nemmeno i risotti. «Sono un maniaco in questo senso, tanto da avere un fornello e una pentola riservata solo al risotto che preparo tostando il riso, rigorosamente Carnaroli stagionato da un anno a un anno e mezzo, nell’olio e poi mantecando con burro e parmigiano», continua l’Ambasciatore del Gusto. «Ho provato anche altre varietà come Baldo e Roma, ma mi appassionano meno quindi torno sempre al Carnaroli, che adoro, alternandolo a volte col Vialone Nano», ammette lo chef che utilizza il Carnaroli anche per alcune insalate di riso. «Per quelle da portar via delle botteghe street food, invece, uso il Basmati perfetto, per esempio, per l’insalata con salmone e yogurt», dice ancora sottolineando la superiorità del riso italiano. «Non si tratta solo della coltivazione – conclude – ma anche dell’esperienza delle aziende italiane sulla lavorazione e sulla stagionatura».

In Campania con ANTONIO TUBELLI. Il riso in Campania prende la forma del sartù, dei piccoli arancini per il fritto di strada e del riso con legumi o patate di cui è un maestro Antonio Tubelli, Ambasciatore del Gusto, nonché chef del Gourmeet di Napoli. «La cottura del nostro riso e legumi non è mutuata dal risotto, ma utilizziamo l’intingolo dei legumi e trattiamo il riso come fosse pasta. Si tratta di una preparazione tipicamente meridionale come quella del “riso brusciato” in cui alle cortecce di formaggio tostate si aggiunge il pomodoro passato e il brodo vegetale e poi si manteca col caciocavallo», dice Tubelli che utilizza soltanto riso italiano. Nella lista delle varietà di riso nella dispensa di Tubelli ci sono Carnaroli, Vialone Nano e Arborio. «Nel sartù il Carnaroli dà il meglio di sé mentre per l’arancino il Vialone nano perché il riso deve sentirsi di più – sottolinea lo chef napoletano -. Per alcuni piatti che ho avuto in carta, tra questi l’insalata di riso Venere in cantalupo, ho utilizzato anche riso Venere e riso rosso. Si tratta, però, sempre di riso italiano. Onestamente il riso basmati, o altre varietà tipiche asiatiche, non mi ha mai attirato perché se penso al riso penso sempre a quello italiano. Magari in futuro lo utilizzerò perché non ho preconcetti».

Riso patate e cozze di STEFANO D’ONGHIA. «Il riso non è una tradizione in Puglia», ammette Stefano D’Onghia. «L’unico piatto regionale che preparo in cui il cereale è ingrediente fondamentale è il riso patate e cozze, un piatto prettamente estivo. La varietà più indicata è un Carnaroli o un Arborio, ma quest’attenzione al riso utilizzato fa parte della cultura degli chef. In casa si utilizza ancora riso parboiled perché l’unica cosa che interessa a chi prepara il piatto è che il riso non scuocia», dice il cuoco pugliese che cucina a Putignano. Il motivo è da ricercarsi nella poca dimestichezza con l’ingrediente nel Tacco d’Italia. «Io stesso non ho mai approfondito la conoscenza del riso – conclude – ma mi piacerebbe saperne di più perché credo che, al di là dell’utilizzo, la conoscenza sia importante».

Gli arancini di ROSARIO UMBRIACO. Il viaggio nell’Italia del riso si conclude in Sicilia dove l’aracino (o arancina che dir si voglia) è, probabilmente, la preparazione più nota di street food. L’Ambasciatore del Gusto Rosario Umbriaco uno dei suoi arancini, quello a doppio strato di riso con fonduta di Piacentinu ennese al centro, lo ha brevettato. «Per questo arancino utilizzo solo prodotti siciliani, riso, che è Carnaroli e Baldo coltivato a Catania, Lentini e Leonforte, zafferano e panatura di grani antichi siciliani compresi», dice Umbriaco. Per tutti gli altri arancini, continua lo specialista ennese, «utilizzo riso Roma Gallo. Per me è molto complicato cambiare perché il mio è un locale storico e devo stare molto attento alle ripercussioni sulla clientela». C’è anche altro a cui Rosario Umbriaco deve stare attento. «Ogni partita di riso è diversa dall’altra. E dal momento che il mio è un lavoro strettamente artigianalmente, il riso sul piano di marmo e senza abbattitore perché la produzione è giornaliera, devo testare ogni partita e mi è capitato anche di rimandare indietro alcuni bancali perché magari il riso era troppo acerbo». Con il riso, infatti, «è tutta una questione di esperienza. Circa sette anni fa sono stato invitato a SorRiso Siculo, prima Festa del riso siciliano. In quel momento s’innescò la mia curiosità ed è grazie alla conoscenza del riso che mi ritrovo dove sono».

Mariella Caruso