Pane e panifici, cambiano le regole

È firmato dal Ministro dello Sviluppo Economico Luigi Di Maio, dal Ministro delle Politiche Agricole, Alimentari, Forestali e del Turismo Gian Marco Centinaio e da Giulia Grillo, Ministro della Salute, il decreto che, dal 19 dicembre, disciplina la denominazione di «panificio», di «pane fresco» e regola l’adozione obbligatoria della dicitura «pane conservato» o «a durabilità prolungata».

Il decreto, il numero 131 del 1 ottobre 2018, stabilisce intanto che per «panificio» s’intende «l’impresa che dispone di impianti di produzione di pane ed eventualmente altri prodotti da forno e assimilati o affini e svolge l’intero ciclo di produzione dalla lavorazione delle materie prime alla cottura finale». Ciò significa che chi acquista pane da altri e lo rivende non può più utilizzare la dicitura panificio per identificare la propria attività. Per «pane fresco», poi, viene identificato quello per la cui produzione non devono essere utilizzati «additivi conservanti» e «altri trattamenti aventi effetto conservante». Inoltre deve essere «preparato secondo un processo di produzione continuo, privo di interruzioni finalizzate al congelamento o surgelazione». L’intervallo di tempo tra l’inizio della lavorazione e la messa in vendita del prodotto finale, affinché il pane possa essere definito fresco, è di 72 ore. Infine, a parte l’obbligatorietà il «pane conservato» o «a durabilità prolungata», se non preimballato, dovrà essere esposto in scomparti separati da quelli del pane fresco. La nuova normativa, nelle intenzioni del legislatore, dovrebbe garantire la massima trasparenza ai consumatori che, così, potranno sempre sapere se il pane che acquisteranno, anche se pubblicizzato sempre come appena sfornato, è fresco di forno o soltanto ravvivato al momento. Di fatto, però, il decreto non convince appieno i panificatori e, soprattutto, non li mette d’accordo anche perché è frutto di un dibattito che affonda le sue radici indietro nel tempo. Per questo, avrebbe già bisogno di essere adeguato alla luce di un mercato in rapido cambiamento in cui i panificatori più illuminati stanno diversificando la propria attività trasformando in chiave “moderna” i panifici, mentre i piccoli continuano ad arrancare e non sarà certo questo regolamento, sacrosanto per i consumatori, ad aiutare la sopravvivenza della categoria in un Paese in cui il consumo di pane si è abbassato, includendo focacce e pizze dai forni artigianali, a circa 164 grammi al giorno procapite.

Antonio Cera. «In queste disposizioni non c’è alcuna salvaguardia della qualità, chi fa il pane cattivo può continuare a farlo. Sono convinto che l’abbattimento del pane, invece, potrebbe essere una grande risorsa per il vero panificatore artigianale che in questo modo può produrre il suo pane senza alcun tipo di conservante», dice Antonio Cera, Ambasciatore del Gusto con laurea alla Bocconi e forno a San Marco in Lamis, nonché fondatore del Manifesto futurista del pane. Il motivo? «La Gdo che vende pane a basso costo non compra il buon pane dell’artigiano che, per fugare subito ogni dubbio, è quello che è buono da mangiare e dà una giusta remunerazione a tutta la filiera, dall’agricoltore fino al dipendente del panificio. Un prodotto del genere non può essere venduto a meno di 6-6,50 euro», osserva il Cera che vende il pane in negozio dai 2 ai 5 euro. «La mia, attualmente, è una vendita in perdita, ma m’interessa avvicinare i consumatori e farli guardare alla qualità del pane perché – afferma – fra 4 o 5 anni solo la Gdo potrà vendere pane (non si sa di che qualità) a basso costo, e a resistere saranno solo i panificatori artigianali che avranno allineato il prezzo alla realtà». L’ostacolo, che di primo acchito sembra insormontabile, riguarda la natura stessa del pane, «considerato un bene di prima necessità e quindi da vendere a basso prezzo. Un concetto che dovrà essere superato, se si vuole la sopravvivenza dell’arte della panificazione: il pane non può più essere un “alimento democratico”, ma diventare un bene per il quale si deve essere disposti a spendere, esattamente come si fa con la pizza o il panettone», chiude Cera.

Francesco Arena. Panificatore artigianale a Messina, l’Ambasciatore del Gusto Francesco Arena, è d’accordo con Cera sulla necessità di dove cambiare la concezione del pane nell’opinione pubblica. «Chi compra il pane a due euro al chilo deve sapere che è impossibile che stia acquistando un prodotto di qualità», concorda l’artigiano che mette in vendita il suo pane dai 4 euro in su che, però, plaude all’entrata in vigore del nuovo decreto. «Sono convinto che per noi piccoli artigiani avrà conseguenze positive perché i consumatori saranno obbligati a riflettere, un po’ come fanno quando si trovano ad addentare una brioche decongelata. Se poi – continua – si prenderanno la briga di leggere l’etichetta si renderanno conto della  presenza dei miglioratori che possono essere naturali (enzimi e/o malto per innescare la lievitazione) o chimici come acido ascorbico, acido tartarico, antimuffa, antifilante necessari per la lunga conservazione del pane».

Pascal Barbato. È fuori dal coro la voce di Pascal Barbato, Ambasciatore del Gusto anch’egli come Cera con forno a San Marco in Lamis. «Considero questa dell’etichettatura una battaglia anacronistica», dice senza mezzi termini. «Non sono queste le lotte da fare, piuttosto i nostri governanti dovrebbero aiutare i panificatori a non essere strozzati dalla Gdo», afferma. «Le etichette, del resto, possono mentire perché esistono miglioratori termolabili di cui non si trova traccia quando il pane è messo in vendita potrebbero non essere indicati», fa notare Barbato. Ovviamente, in quest’ultimo caso, si entra nel novero di una sofisticazione alimentare. «Non sarà concentrarsi sulla dicitura «pane conservato» o «a durabilità prolungata», che io dovrò utilizzare per alcuni pani speciali che non produco giornalmente, che cambierà le cose. Ogni problema, infatti, se segmentato non produce soluzioni ottimali».

Mariella Caruso


2018, Dop e Igp ambasciatori del made in Italy nel mondo

È ancora l’Italia a mantenere il primato mondiale delle denominazioni con 822 prodotti DOP, IGP, STG registrate a livello europeo, su 3.036 totali nel mondo. Questo è quanto emerso a Roma alla presentazione del Rapporto 2018 Ismea Qualivita, l’indagine annuale che analizza il comparto della qualità alimentare certificata.

I prodotti Dop e Igp sono sempre più un asset strategico non solo dell’agroalimentare made in Italy ma dell’intera economia nazionale. Infatti per il sistema agroalimentare certificato nel 2017 è aumentato il valore della produzione, sono cresciute le esportazioni e si rafforzano i consumi interni nella grande distribuzione. Un patrimonio che supera i 15 miliardi di euro di valore alla produzione, in crescita del 2,6%, che contribuisce per il 18% al valore economico complessivo del settore agroalimentare nazionale.

Il rapporto evidenzia quanto il settore sia in salute e in crescita. Proprio per questo nelle politiche di valorizzazione e di sviluppo tale comparto dovrebbe essere tenuto in forte considerazione e come riferimento. Il dettaglio dell’analisi dimostra che la crescita interessa soprattutto le IG più grandi (quasi l’80% del mercato è determinato da sole 10 denominazioni) con una netta concentrazione nel nord del Paese. Le Regioni Veneto ed Emilia-Romagna trainano il settore delle indicazioni geografiche e Parma, Verona e Treviso risultano le città più ricche di prodotti tipici.

La novità del Rapporto 2018 è la sezione dedicata a Dop e Igp su web e social, una fotografia delle conversazioni e del sentiment on line realizzata sui 50 prodotti food e 50 wine Dop e Igp che contano il maggior numero di follower.

La studio evidenzia come in pochi anni ad oggi l’approccio sia radicalmente cambiato. Nel 2010 molti consorzi non erano neanche interessati ad approfondire le tematiche web. Oggi il 61% delle Ig ha un sito web ufficiale e il 52% ha un profilo social. Dal monitoraggio effettuato su 64 milioni di engagement, tenendo conto di 2,4 milioni di menzioni e dei post effettuati da 1,1 milioni di autori emerge come il sistema Dop e Igp sia un vero e proprio ambasciatore della cultura italiana nel mondo. Un’armata che racconta il paese e i propri territori di origine, diventando così un fenomenale strumento attrattivo per il turismo.

Nonostante l’evidente stato di salute il settore non risulta scevro da talune criticità che potrebbero minarne l’evoluzione. È necessaria da parte degli operatori quindi una riflessione per il superamento di punti di debolezza, come la polverizzazione delle aziende ed una scarsa aggregazione che impediscono ai prodotti una idonea capacità di penetrazione.

Un occhio di riguardo è riservato per l’estero, verso cui dovrebbero essere concentrati maggiori sforzi nelle attività di promozione per garantire la presenza dei prodotti sullo scaffale e nell’attività di tutela. In alcuni mercati, fondamentali per l’attività di export dei nostri prodotti agroalimentari, si rilevano consistenti criticità, dagli USA in cui rischiano di prevalere le spinte protezionistiche, all’Inghilterra in cui si registra un’elevata incertezza sugli esiti dei negoziati per la Brexit. In questo panorama quindi è di fondamentale importanza il lavoro delle associazioni del settore agroalimentare e della ristorazione italiana di qualità, in sinergia con le attività degli organi governativi di Enti ed Istituzioni.

L’Associazione Italiana Ambasciatori del Gusto è parte integrante e attiva di questo processo. La missione parte proprio dalla consapevolezza che raccontare e valorizzare significa contribuire allo sviluppo del Paese.


Franco Pepe: «La mia vita arricchita da un rapporto speciale»

La foto è di quelle che allargano il cuore: Franco Pepe è ritratto con alcuni degli ospiti del Centro Diurno Disabili gestito della Cooperativa Lotta contro L’Emarginazione di Cologno Monzese. Insieme a loro, il 3 dicembre Giornata mondiale della disabilità, l’Ambasciatore del Gusto ha preparato nel laboratorio di cucina del Centro due delle sue pizze simbolo, la Scarpetta e la Margherita Sbagliata, per poi donare a ognuno una divisa da cuoco messa a disposizione da Antonio Goeldlin.

«A dire il vero non sapevo che il 3 dicembre fosse la “Giornata mondiale della disabilità”, l’ho scoperto solo dopo essere partito da Caiazzo alla volta di Cologno Monzese, dove periodicamente vado a trovare i miei amici per gli auguri di Natale e mi è sembrata una splendida coincidenza che questa giornata cadesse nel giorno dell’incontro» racconta Franco Pepe che da sette anni è un habitué del Centro e che da allora ne è diventato grande amico, «Sette anni fa, alla mia prima partecipazione al Congresso di Identità Golose, Lucia Marcuccio che al Cdd si occupa del Laboratorio pizza, mi chiese di poter far partecipare i suoi corsisti alla mia lezione. Ne parlai con Paolo Marchi che, sempre disponibile a queste iniziative, mi diede 5 posti in prima fila per le carrozzine di questi ragazzi».

Sarebbe potuta concludersi così questa bella esperienza, ma la storia è soltanto all’inizio. «Dopo quella lezione andai a trovarli e rimasi colpito dalla loro passione che non conosceva limiti. Preparavano le pizze con un forno inglobato in quelle cucine laccate bianche d’altri tempi», continua il Maestro pizzaiolo di Pepe in Grani che, quindi, propose di destinare al Cdd i fondi di una delle cene di raccolta fondi organizzata con i colleghi chef Nino Di Costanzo, Alfonso Pepe e Berardino Lombardo.

«Con i fondi – dice Pepe – ho fatto costruire per loro un forno ad hoc dalla Sud Forni». Poi, grazie ai suoi partner, è riuscito nel tempo a far avere loro anche tanto altro, fino alle divise per questo Natale.

«Con loro ho un rapporto quotidiano, mi chiamano per raccontarmi cosa fanno. Ma la cosa bella è che tutto questo arricchisce la mia vita», ammette Pepe che, durante l’ultima visita al Centro, ha ricevuto dal sindaco di Cologno Monzese Angelo Rocchi il gagliardetto comunale e delle bellissime stampe di Villa Besozzi Casati, sede del Comune.

La solidarietà si rivela un tratto fondamentale e distintivo degli Ambasciatori del Gusto, che in soli tre anni di vita associativa hanno aderito e finanziato diversi progetti. Qualcuno potrebbe osservare che tali azioni vadano compiute con umiltà ed in silenzio, senza ricorrere al clamore mediatico. Su tale presupposto siamo tutti d’accordo, ma quando simili gesti da episodici si trasformano in progetti strutturati, permanenti e con una visione d’insieme, occorre alzare il sipario. In tal modo si prova a contribuire alla piena riuscita degli stessi veicolandone l’attenzione e, cosa non da poco, si tenta di coinvolgere ad ampio spettro l’opinione pubblica alla riflessione su questa regola non scritta, che da sempre ha contraddistinto il nostro Paese in ogni ambito e che ci rende fieri e orgogliosi, ma non per questo eroi.

Mariella Caruso e Gianluca De Cristofaro


Agli Allegrini la Valpolicella va ormai sempre più stretta

C’è un legame molto profondo tra Allegrini e la Valpolicella Classica, territorio a vocazione vitivinicola nel quale la famiglia di viticoltori ha cominciato a operare poco meno di due secoli fa e dove, ancora oggi, ha il suo quartier generale. «La storia della famiglia Allegrini è documentata a partire dal XVI secolo. Dal 1854 la famiglia si dedica alla produzione del vino ed è impegnata in prima linea nella valorizzazione e promozione della Valpolicella, a sostegno della cultura e dell’identità di questo territorio unico. Naturalmente è un onore per tutti noi, componenti della famiglia, custodire le terre che abbiamo ricevuto e preservarne la bellezza», ammette Caterina Mastella Allegrini, responsabile marketing dell’azienda che distribuisce vini in tutto il mondo, nonché appartenente alla settima generazione.

Qual è stato il ruolo di suo nonno Giovanni nel rilancio aziendale e nell’espansione internazionale di Allegrini?

«L’azienda ha vissuto una profonda trasformazione a partire dagli anni Sessanta con mio nonno Giovanni Allegrini. Riconosciuto come uno dei maggiori artefici della rinascita della Valpolicella, ha perfezionato l’arte della vinificazione, agendo con rigore nella selezione delle uve e introducendo alcune importanti innovazioni in ambito viticolo ed enologico. L’obiettivo è stato quello di spostare l’attenzione prima che sulla quantità, sulla qualità vitivinicola.  L’eredità aziendale è poi passata nelle mani di mia madre Marilisa e dei miei zii Walter (scomparso nel 2003) e Franco, che hanno saputo raccogliere, sviluppare e comunicare le intuizioni di nonno Giovanni, portando il nome di Allegrini e della Valpolicella nel mondo».

Nel tempo al brand Allegrini avete affiancato Corte Giara, Poggio al Tesoro e San Polo spingendovi anche in Toscana. A oggi quante tipologie di vino producete?

«Dalla Valpolicella, dove accanto all’Amarone si producono diverse tipologie di vino (dal Valpolicella al dolce Recioto, oltre a cru di successo come La Poja – Corvina in purezza -, La Grola e Palazzo della Torre), abbiamo spinto lo sguardo in Toscana, a Bolgheri, dove mio zio Walter e mia madre hanno acquistato un terreno nel 2001 dando vita alla tenuta Poggio al Tesoro. Qui coltiviamo vitigni internazionali e produciamo vini di taglio bordolese, ma anche un Vermentino molto apprezzato che si chiama Solosole, e il rosato Cassiopea. Dedicato a Walter, un Cabernet Franc in purezza, è il fiore all’occhiello dell’azienda e non a caso porta il nome di mio zio. A Montalcino, nella tenuta San Polo, ci dedichiamo ovviamente al Brunello, al Brunello Riserva e tra poco presenteremo un cru che si chiamerà Podernovi, dal nome della località e del vigneto migliore. Corte Giara dà, infine, spazio al patrimonio enologico del Veneto e alle varietà internazionali, in accordo con viticoltori veneti di fiducia, che accompagniamo in ogni fase del processo produttivo».

C’è una produzione e un vino alla quale siete particolarmente affezionati? E, se sì, perché?

«È molto difficile scegliere un prodotto rispetto ad altri perché ciascun vino racconta un particolare momento della nostra storia aziendale e familiare. Se dovessi scegliere, però, direi La Grola. La ragione di questa mia scelta si basa principalmente su due motivazioni diverse. Da un lato, infatti, La Grola è un vino cui tutta la mia famiglia tiene in particolar modo perché il vigneto che utilizziamo per la produzione è stato acquistato da mio nonno Giovanni alla fine degli anni ’70 quando la Valpolicella non era ancora riconosciuta globalmente come zona vocata per la qualità dei suoi prodotti. Dall’altro, proprio perché riteniamo che questo vino sia parte del testamento del nonno, con l’intenzione di valorizzarlo al meglio abbiamo sviluppato il progetto degli artisti per La Grola di cui mi occupo personalmente. Ogni anno, infatti, la nostra famiglia decide di affidare a un’artista il compito di creare un’opera che, in un’edizione limitata, rende unica La Grola. Per quella che è stata la mia formazione, è davvero importante riuscire a unire il mondo dell’arte al mondo vino e io sono felice di occuparmi di ogni aspetto di questo progetto e di vederne i progressi. La scelta dell’artista, il dialogo con l’artista e la galleria (se coinvolta), la realizzazione dell’opera, la produzione del materiale collegato all’opera possono essere a volte passaggi delicati e a tratti complessi ma, una volta terminato il lavoro e presentata la Limited Edition, il risultato finale ripaga me e le persone che con me collaborano di ogni sforzo».

Una delle vostre caratteristiche aziendali è la produzione con uve da vigneti di proprietà, alcuni con conduzione biologica. Una scelta di campo che coinvolgerà altre vostre produzioni?

«Allegrini sta effettuando un percorso che va addirittura “oltre” il biologico. Lo scorso anno ha ottenuto la certificazione “Biodiversity Friend”, con cui l’azienda si conferma “custode” della biodiversità e dunque della ricchezza del territorio. Grazie a una viticoltura a minimo impatto ambientale, si rende infatti il vigneto non solo un luogo di produzione di uva sana, ma si difende anche il prezioso habitat naturale, arricchendolo di specie animali e vegetali, differenti dalla vite e utili alla salubrità del luogo. A Poggio al Tesoro stiamo adottando una via bioetica, anche in questo caso rispettosa della pianta, del territorio e quindi del prodotto finale. San Polo ha ricevuto invece nel 2017 la certificazione bio, oltre ad essere una delle prime cantine CasaClima Wine».

Esiste anche un premio Allegrini, «L’arte di mostrare l’arte». Come e perché è nato?

«Allegrini ha cercato in questi anni di caratterizzarsi accompagnando le istituzioni culturali italiane ed internazionali. In questo senso va letto l’intrecciarsi delle relazioni con l’Ermitage di San Pietroburgo, la Collezione Peggy Guggenheim di Venezia e con numerosi intellettuali. Sempre in questo contesto s’inquadra la creazione del premio “L’Arte di mostrare l’Arte”, un riconoscimento a chi per visione, ricerca, originalità e chiarezza espositiva ha saputo proporre una mostra da ricordare».

Avete trasformato il vino anche in «esperienza» con la visita alle cantine e l’ospitalità nella storica Villa Della Torre che è anche un centro di cultura. Cosa devono aspettarsi i semplici visitatori e i vostri ospiti?

«L’azienda accoglie i suoi ospiti a Villa Della Torre Allegrini, gioiello del Rinascimento italiano, opera di Giulio Romano, a Fumane di Valpolicella. La Villa è la rappresentazione di un percorso spirituale e conoscitivo, che parte dagli Inferi e sale al Paradiso, in un susseguirsi di simboli legati alla cultura religiosa e profana. In questo suggestivo complesso sorge il Wine & Art Relais Villa Della Torre. Le dieci Luxury Rooms godono di scorci straordinari sui giardini e sul peristilio centrale. Coronano l’offerta le degustazioni dei vini Allegrini, assieme ai prodotti del territorio curati dai nostri chef, corsi di cucina, tour guidati, passeggiate ecologiche nel vigneto ed eventi culturali».

Mariella Caruso


Oltre a conoscere i vini, bisogna imparare a relazionarsi con la clientela

«Negli anni Settanta quando iniziai la mia avventura nel mondo della ristorazione, le poche cose sicure su cui potevo contare erano la mia passione per il vino e il fatto che avevo pochi soldi in tasca. Certamente sognavo il successo, ma non potevo immaginare cosa sarei riuscito a realizzare». Così l’Ambasciatore del Gusto Giorgio Pinchiorri, sommelier e titolare con la compagna Annie Feolde dell’Enoteca Pinchiorri, uno dei dieci tristellati Michelin.

Cosa significa per Lei essere il fondatore di uno dei ristoranti più rinomati al mondo che porta il suo nome accoppiato alla passione della sua vita, il vino?

«È la dimostrazione che si può credere nella realizzazione di un sogno; ma bisogna costruirlo con passione ed essere disposti a fare dei sacrifici. Non è stato facile, ho dovuto fare molte rinunce per arrivare dove mi trovo. Sicuramente la passione per i vini e la cantina, costruita negli anni con tanti sforzi, sono state le chiavi del successo, ma poco avrebbero contato se non fossero cresciuti di pari passo la cucina, l’ambiente e soprattutto se non avessi avuto dei validi collaboratori. Alcuni dei più capaci collaboratori sono con me da più di 25 anni, altri hanno proseguito la loro strada e si sono affermati efficacemente nel mondo della ristorazione stellata».

Nella sua presentazione del sito dell’Enoteca Pinchiorri si definisce un uomo impulsivo. Qual è la cosa più impulsiva che ha fatto?

«Mi definisco un uomo impulsivo per le decisioni che spesso prendo apparentemente senza pensarci, ma forse l’impulsività a volte è solo la capacità di riflettere più velocemente; anche chi riflette a lungo sulle decisioni può commettere degli errori. Io con la mia impulsività di errori ne ho commessi tanti e spesso mi sono costati cari, ma alla stessa maniera ho saputo prendere anche decisioni fondamentali e vincenti in un batter d’occhio. Fra le tante cose più impulsive che ho fatto, ci sono stati sicuramente degli acquisti di vino: a volte si sono rivelati giusti, altre sbagliati».

Cos’è per lei essere un sommelier?

«I miei primi passi nel mondo dei sommelier li ho compiuti con l’Ais di Firenze, poi lungo il mio percorso ho incontrato uno dei più grandi Maestri del nostro tempo, Luigi Veronelli il quale, grazie al nostro grande rapporto di amicizia, mi ha trasmesso molto del suo infinito sapere. Oggi ci sono tantissime opportunità e nuovi mezzi di comunicazione a disposizione dei giovani per poter acquisire e accrescere le competenze necessarie per diventare sommelier. Di pari passo bisogna però sviluppare anche la capacità di relazionarsi con una clientela sempre più competente ed esigente. Acquisire una sensibilità che consenta di capire e rispondere al desiderio dei clienti di vivere e condividere delle emozioni, non solo attraverso le creazioni degli chef ma anche grazie alla magia di un bicchiere di vino. Senza però dimenticare l’aspetto commerciale legato a questo ruolo, che deve essere in sintonia con le scelte e le esigenze economiche dell’azienda».

Com’è cambiata negli anni la visione dell’enoteca nella ristorazione?

«Negli anni ’70 quando cominciai a collezionare vini, a fianco delle grandi etichette cercavo sempre qualche nuovo produttore da poter proporre ai miei clienti. Molti, sconosciuti all’epoca, sono oggi affermati, alcuni addirittura dei miti e i loro vini spesso sono introvabili o molto costosi. Attualmente non è facile come un tempo creare una cantina con tante eccellenze, può voler dire fare i conti con le difficoltà di reperimento delle bottiglie e con impegni economici importanti. Allo stesso tempo, oggigiorno vi sono tante giovani realtà che guardano a una produzione qualitativa nel rispetto del territorio e offrono l’opportunità di formulare proposte ampie, valide e molto interessanti. Bisogna sempre ricordare che una valida cantina è quella che riesce a far “girare” i vini soddisfacendo sia le esigenze dei clienti sia quelle aziendali. Il lavoro del sommelier responsabile diventa quindi importante e fondamentale».

Quali vini non dovrebbero mai mancare nell’enoteca di un ristorante?

«Nella scelta influiscono molti fattori. Considerare il territorio in cui si opera, valutare bene la clientela che frequenta il locale, essere in sintonia con le impostazioni aziendali sono alcuni fattori che devono essere considerati. Conta poi il fattore personale; le esperienze e il gusto del sommelier possono delineare la personalità della carta dei vini. Personalmente ho sempre avuto predilezione per i Grandi Vini sia italiani sia internazionali e nella mia cantina non sono mai mancate le etichette più prestigiose. Ho sempre dato rilevanza ai vini italiani e in particolar modo alla Toscana in quanto terra di grandi vini e territorio in cui opero. Ma ho anche un grande amore per la Borgogna e per il Bordeaux e non potrei rinunciare allo Champagne, ai grandi vini californiani, spagnoli, tedeschi».

Lei che è stato il precursore della vendita al bicchiere di vini pregiati, vede attualmente qualche tendenza che possa rivoluzionare il mondo del servizio del vino?

«Il consumo del vino è molto cambiato negli ultimi anni. Oggi è molto più consapevole e più attento alla qualità. Sicuramente girano molte idee, ma la vendita al bicchiere rimane ancora la più praticabile. Noi da sempre proponiamo numerosi vini in degustazioni serviti al bicchiere, ma non sempre le Grandi Etichette possono essere proposte a bicchiere. Pensando proprio a queste Grandi Etichette, ultimamente stiamo pensando a una formula di condivisione di una grande bottiglia».

Quali sono i vini italiani che, a ragion veduta, potranno essere i prossimi Ambasciatori del Gusto nel mondo?

«Ci sono tantissimi vini in Italia che hanno le qualità per essere Ambasciatori del Gusto italiano nel mondo. In questi ultimi anni ho potuto seguire e apprezzare tanti ottimi vini, posso citare lo Studio di Bianco di Borgo del Tiglio; le meravigliose selezioni della cantina di Terlano; Helena, il Nero di Troia riproposto dai Vignaioli Vespa; il Gattinara Vigna Molsino, della storica cantina Nervi oggi guidata da Giacomo Conterno; due interessantissime novità della Famiglia Antinori: Il Matarocchio, un Cabernet Franc prodotto nella Tenuta di Guado al Tasso e Ampio delle Mortelle, un Carménere, Cabernet Franc e Cabernet Sauvignon prodotto nel Grossetano e… potrei continuare a lungo».

Mariella Caruso


Da Gragnano portiamo nel mondo pasta di qualità prodotta come 5 secoli fa

«La pasta di Gragnano Igp deve rispettare un rigido disciplinare che prevede la produzione all’interno del Comune di Gragnano, l’utilizzo di una semola di grano duro che abbia un contenuto minimo di proteine del 13% e acqua di Gragnano, la trafilatura al bronzo e un percorso di essicazione tradizionale». A riassumere i pilastri del disciplinare della pasta di Gragnano, «che fotografa un processo produttivo che ha più di cinque secoli», è Giuseppe Di Martino, co-proprietario di Pastificio dei Campi, brand di pasta di Gragnano Igp nel mercato di alta gamma.

A differenziare la produzione di Pastificio dei Campi è il sistema di tracciabilità totale del prodotto che permette di risalire dal pacchetto di pasta  al campo dove è stato raccolto il grano. «Un sistema che si chiama “total tracking system” e permette la totale trasparenza dell’origine delle materie prime – continua Di Martino – Inserendo nel nostro sito il codice di produzione stampato sul pacco attraverso Google Maps viene localizzazione il campo di semina; un’altra applicazione informa sulla data di semina e di raccolta. C’è pure la foto del contadino e una serie di altre informazioni come il nome del mugnaio e del pastaio».

Il motivo dell’adozione del “total tracking system” è il nostro modo di sottolineare «gli accordi di filiera con i nostri agricoltori che ci permettono di fare la nostra pasta con un grano straordinario che va al di là del biologico, grazie al rovescio e alla rotazione delle colture con un anno di favino e uno di maggese attraverso a un progetto che mette al centro sia la qualità del prodotto, sia la vita dell’agricoltore».

Questa modalità riguarda tutti i 35-37 quintali che giornalmente sono prodotti da Pastificio dei Campi, pari a 37.000 piatti di pasta. «I nostri clienti tipici sono gli chef che hanno bisogno di un prodotto particolarmente performante con una tenuta in cottura importante, un gusto deciso, che rimanga in forma dalla fase di impiattamento a quella della presentazione», continua Di Martino. A far ottenere queste caratteristiche alla pasta di Gragnano di Pastificio dei Campi contribuisce anche «il prosciugamento a bassissima temperatura in celle statiche su telai di legno da 28 a 86 ore a seconda dei formati e dalla stagione. Inoltre lo stress dato alla pasta dalla trafilazione al bronzo davvero profonda viene restituito sia in sapore, sia nella capacità di rilasciare amido».

«Far conoscere fuori dai nostri confini la pasta secca di qualità è un modo di non banalizzare un prodotto che ha un’importanza capitale nella cucina italiana. Se uno chef o un consumatore straniero parte da una pasta di qualità, sceglierà un condimento di qualità», aggiunge Di Martino che può contare sull’esportazione del 60% della produzione di Pastificio dei Campi.

Non è un caso che il claim aziendale sia “La pasta degli chef che puoi cucinare anche tu”. «Il nostro target di riferimento è sicuramente quello alto-professionale degli chef dei ristoranti gastronomici e stellati in tutto il mondo, ma il prodotto – conclude – è facilmente reperibile dai privati online, in enoteche e gastronomie di qualità e nei department store di magazzini di prestigio, non solo in Italia».

Mariella Caruso


Dobbiamo far innamorare i giovani del nostro lavoro

Scrivono sui giornali  che la disoccupazione in Italia è la terza più alta d’Europa, ma com’è possibile che da più di un anno ormai cerchiamo invano personale per la nostra pasticceria?

Chi come me è cresciuto nell’era pre-social condivide un certo tipo di formazione fatta di dedizione, sacrificio e tanta umiltà.

La scelta del “fare impresa” per me è avvenuta dopo anni di duro lavoro, porte in faccia e tanta tanta gavetta, ed oggi, che ho delle attività avviate nel settore del “food”, ancora di più comprendo la complessità di questo mondo e l’importanza di avere delle solide basi per poter affrontare le sfide di ogni giorno. Ma rifarei questa scelta ogni giorno perché mai nella vita mi sono sentito più gratificato ed entusiasta di quello che sono e faccio ogni giorno.

Eppure la realtà lavorativa con cui mi confronto in questo settore appare molto lontana dalla mia esperienza; oggi la mentalità del “voglio tutto e subito” e del meglio “apparire che essere” dettata  dai social fa si che moltissimi giovani snobbino il lavoro (forse per attendere qualche grande occasione o fortuna?) e questo rende la ricerca del personale uno degli aspetti più difficili nell’ambito del business “food”.

Da più di un anno proviamo ad assumere personale per la nostra pasticceria e caffetteria in centro a Milano; cerchiamo delle figure professionali fra i 20 e i 35 anni che si occupino del servizio al banco. Offerta di contratto a tempo indeterminato (ormai non più un obiettivo fondamentale per molti!), con elevate possibilità di crescita nel breve termine visti i piani di sviluppo aziendali. Requisiti minimi “sulla carta”: esperienza lavorativa di almeno 6 mesi in ruoli analoghi e conoscenza dell’inglese. Requisiti “soft”: interesse per il proprio lavoro, entusiasmo, spirito di squadra, voglia di crescere. Risultato? Non troviamo in pratica nessuno.

Si presentano ai colloqui giovani sui 20-25 anni con scarsa motivazione, subito pronti a chiedere piuttosto che apprezzare l’opportunità che viene offerta.

La difficoltà della ricerca del personale per questo tipo di servizio è comune a molti, tanto che a ogni occasione di confronto sul tema tutti riscontriamo le medesime problematiche: non ci sono giovani che hanno entusiasmo e voglia di lavorare e il turn over risulta di conseguenza troppo alto. Questo rende molto pesante  anche il tema della formazione poiché non hai neanche il tempo di terminare il periodo di apprendimento che ti lasciano di punto in bianco, a volte senza neanche avvisare, incuranti degli obblighi contrattuali. Noi imprenditori non siamo tutelati.

C’è dunque qualcosa che non va: i canali dove cercare personale per questo tipo di attività sono troppo dispersi e dispersibili? Non conosciamo i canali giusti dove proporre offerte di lavoro? O forse qualcuno ci deve spiegare cosa si intende per disoccupazione?

Sicuramente dovremmo fare il massimo possibile per diffondere una mentalità diversa che possa far riemergere quell’entusiasmo e motivazione che sembrano sopiti. Per troppo tempo nelle aziende si è lasciata da parte la valutazione sulla condotta del personale guardando solo alle competenze tecniche; ma questo è molto limitante perché il successo di un’azienda è fatto dalle persone che ci lavorano e le persone per lavorare insieme non hanno bisogno di competenze tecniche ma soprattutto di specifici valori quali: rispetto per il lavoro, rispetto per gli altri, solidarietà, entusiasmo, spirito di sacrificio, tutti punti che diventano fondamentali per creare una squadra forte e solida che duri nel tempo.

Come nobilitare questa tipologia di lavoro e trasmettere ai giovani che è possibile imparare e crescere tanto in questo settore?

All’interno della “food community” dovremmo iniziare a sponsorizzare e condividere dei modelli di comportamento positivi e premiarli (sotto qualsiasi forma economica e non); ad esempio sarebbe molto utile avere un motore di ricerca specializzato sul settore “pasticceria-caffetterie” in cui, oltre ai curricula, i candidati potrebbero inserire una valutazione fatta dal datore di lavoro, presso cui hanno lavorato, relativamente alle proprie competenze “soft”.  Per far questo bisognerebbe istituzionalizzare un sistema di valori condiviso con l’obiettivo di trasmettere ai giovani in cerca di lavoro che il lavorare “in un certo modo” non passa inosservato.

Non penso sia un’utopia. Anzi credo fortemente che i giovani abbiano bisogno di nuove motivazioni, sfide da affrontare e obiettivi da raggiungere sempre più in linea con i tempi. È finito il tempo del dipendente “schiavo” e del datore di lavoro “padrone”, e chi fa impresa oggi deve averlo molto bene in testa altrimenti continueremo ad avere sempre e solo le stesse difficoltà.

Vittorio Borgia


Viaggio dentro Intrecci, l'Alta Formazione per i professionisti della sala

Si chiama Note a margine il convegno con cui la scuola di Alta Formazione di Sala Intrecci festeggerà al Teatro Mancinelli di Orvieto il suo primo compleanno. «Il lavoro di sala è un lavoro che si fa bene solo lavorando in squadra, così abbiamo scelto di parlare dell’importanza della squadra con alcuni ospiti d’eccezione: Brunello Cucinelli, Giuseppe Palmieri, Roberto Mancini, Stefano Domenicali, Riccardo Agostini, Luca Tomassini, il direttore del Policlinico Gemelli Giovanni Scambia, Alessandro Pipero e Lamberto Tacoli, presidente Associazione Nautica Italiana e presidente e amministratore delegato di Perini Navi», dice Marta Cotarella, direttrice di Intrecci di cui è fondatrice con la sorella Enrica, che si occupa della comunicazione, e la cugina Dominga, presidente del comitato scientifico della scuola che, di fatto, è la “mamma” della Scuola.

«Intrecci nasce da un’intuizione di Dominga – continua Marta Cotarella -. Da tempo io, Dominga ed Enrica, pur senza uscire dal mondo del vino (l’azienda di famiglia è la Falesco) che amiamo profondamente, sentivamo la necessità di metterci in gioco in qualcosa che fosse completamente nostro, non da “figlie di”. Dominga che è la front-woman di Falesco e passa almeno 200 giorni all’anno in giro per ristoranti ha raccolto le preoccupazioni di sommelier, maître e ristoratori che a fronte dell’aumento della qualità nelle brigate di cucina, lamentavano una carenza di personale specializzato di sala. Questo nell’Italia di oggi è paradossale».

Dall’idea alla sua realizzazione quanto tempo è passato?

«Abbiamo cominciato a parlarne nel gennaio 2014, il primo giorno di scuola è stato il 15 gennaio 2018. Nei quattro anni di lavoro abbiamo prima cominciato a studiare la struttura del progetto: siamo partiti dal punto fermo di voler fare un campus dove i ragazzi potessero vivere e cominciare sin da subito a lavorare sul concetto di squadra. Poi abbiamo parlato con tutti i rappresentati delle categorie utili a formare le giuste professionalità e abbiamo contattato università e professionisti per creare il programma didattico e avere il loro apporto in fase di insegnamento».

Cosa insegnate a Intrecci?

«C’è un gruppo di discipline forti che sono la sala e l’accoglienza, la sommellerie, l’enologia. E ancora scienza dell’alimentazione, economia e gestione d’impresa, due lingue che, probabilmente, il prossimo anno diventeranno tre».

Accanto a queste, però, ci sono delle materie inconsuete.

«Si tratta di un gruppo di discipline che abbiamo chiamato contaminazioni perché sono attività che vengono da mondi paralleli: recitazione, portamento, galateo, styling, psicologia, tecniche di illuminazione e di sonorizzazione degli ambienti. In totale il corso si compone di 1200 ore in aula e 980 ore di stage».

Quanti studenti ammettete e quali sono le modalità di ammissione?

«Il primo anno ne abbiamo ammessi 14 che completeranno lo stage a metà gennaio, tutti hanno già ricevuto proposte di lavoro. Al secondo anno, partito da un mese, sono iscritti 25 studenti. L’ammissione avviene attraverso un colloquio motivazionale, chiediamo un diploma di scuola media superiore e una base di lingua inglese».

Qual è la cosa che vi ha stupito di più?

«Ce ne sono alcune. Intanto la velocità con cui il progetto sta riscuotendo approvazione: cinque Università (Sapienza, Tuscia, Pollenzo, Sannio e Cattolica) ci stanno appoggiando. Poi le relazioni tra i ragazzi che hanno costruito una famiglia parallela».

Quali sono i progetti futuri?

«Intanto ci allargheremo all’estero. Abbiamo visitato alcune scuole in India, Spagna e Dubai che ci hanno chiesto collaborazione. Pensiamo di organizzare dei focus in loco e sei mesi in aula in Italia. Poi ci piacerebbe che il corso diventasse una laurea triennale».

Mariella Caruso