L’importanza di fotografare bene il cibo

Fotografare il cibo, la food photography, è una specializzazione tanto affascinante quanto rara, nonostante si possa pensare il contrario. Fin dall’avvento della fotografia, il cibo è stato soggetto muto delle pellicole. Se ne parliamo oggi, dobbiamo fare attenzione a separare quella di stampo pubblicitario con quella invece che è da considerarsi la vera food photography, che non sono in molti a fare. Presente nella maniera che conosciamo oggi fin dal primo Bocuse D’Or del 1987, quando ognuno degli chef aveva accanto il proprio fotografo, è il racconto di un piatto e di chi ci sta dietro.

Cosa significa fare food photography nel 2019? Per scoprire i lati di un’arte un po’ personale, un po’ al servizio di una committenza, abbiamo interpellato tre grandi fotografi italiani.

Andrea Di Lorenzo è un fotografo di food da dieci anni, da quando ne aveva 26. Ha scattato una copertina per il National Geographic, collabora con Munchies Italia, La Cucina Italiana, la catena di hotellerie Belmond, la rivista tedesca Feinschmecker in ambito giornalistico ed è fotografo di alcuni dei più grandi chef romani e non: Roy Caceres, Marco Martini, Ciro Scamardella di Pipero.

“Ho iniziato per caso tramite agenzia 10 anni fa”, mi dice. “Dai primi lavori per piccoli locali e pizzerie ho capito che poteva essere un rischio buttarsi in un tipo di fotografia tanto di settore, quanto una grandesoddisfazione. La chiave è stata appassionarsi, giorno dopo giorno, al mondo del cibo. Se non sei interessato al mondo che fotografi, non puoi veramente raccontarlo.” È un lavoro che paga, ma anche rischioso. Soprattutto quando non era ancora molto sentita la comunicazione, come lo è oggi. “Dieci anni fa non c’erano tutte queste intenzioni di comunicare. Le foto erano più che altro usate come archivio. Anche le esigenze dei clienti sono cambiate conseguentemente: penso sia giusto ascoltare il punto di vista dello chef. Il tuo stile deve essere riconoscibile, è il tuo biglietto da visita, ma il punto di vista può cambiare, e lui rimane sempre il committente.”

Oggi si lavora molto con gli uffici stampa dei ristoranti, spesso a strettissimo contatto. E questo, che potrebbe sembrare una limitazione, è invece in qualche modo un punto di forza. “Questo contatto stretto è molto importante per noi fotografi.”, conclude Andrea Di Lorenzo. “In questo modo possiamo avere un termometro di come si muove il mercato e, di conseguenza, qual è la maniera migliore di comunicare il cliente.”

Se parliamo di food photography in Italia, ma anche al di fuori, è impossibile non citare il nome di Lido Vannucchi. Lido viene chiamato per il suo stile unico. Ci sono due modi per fare questo lavoro: avere una riconoscibilità e avere uno stile preciso. Non significa che uno sia meglio dell’altro, sono solo due scelte di scattare differenti.

Ducasse e Bocuse avevano sempre i loro fotografi. Era un principio di comunicazione, era l’inizio della food photography, il racconto dietro al cibo”, dice Lido Vannucchi. “Sono ormai otto anni che scatto in questo mondo. Ho iniziato con la fotografia erotica in polaroid e poi ho virato su quella industriale e di prodotto. Ma la mia vera passione era l’enogastronomia: sono stato in cucina per anni e anche in sala come sommelier. Poi sono arrivati i primi incarichi. Il mio mentore è stato Bob Noto. Senza di lui non esisterei come fotografo di cibo”.

La visione di Lido Vannucchi è quella di un progetto dall’inizio alla fine: “Cerco di fotografare non un piatto, ma un’estetica. Ci deve essere una didascalia per me, a portare un quid in più. Alcuni cuochi riescono a capire la tua visione, altri hanno bisogno di essere accompagnati. Sei un trasmigratore di idee, e quando ti ascoltano si crea una bella comunicazione, che è poi la comunicazione del luogo, dei piatti e dallapersona.”

È sempre difficile riuscire a conciliare la propria arte con le esigenze del cliente, ci si riesce solo con un dialogo e un progetto ben definito, secondo l’esperienza di Vannucchi. “Ci vuole uno storytelling. Se il cliente non riesce a capirlo, allora subentra anche una consulenza d’immagine, che può essere anche scissa dagli scatti in sé. Hai la fortuna di lavorare con i più grandi chef d’Italia e cerchi di fargli capire cosa c’è dietro, cosa ne verrà fuori.” I suoi scatti raccontano le persone, ma anche la loro evoluzione. Con Adriano Baldassarre, ha curato il nuovo progetto Tordomatto dall’inizio, creando un immaginario. Con Gianfranco Pascucci sta raccontando la sua cucina che vira dal pesce al mare. E poi Cristiano Tomei, Enrico Crippa. Lido Vannucchi cerca di cogliere, nel tempo e nell’attimo, le sfumature per ricomporre una cucina identitaria.

Non solo di uomini è fatto questo mondo. Francesca Brambilla e Serena Serrani scattano i piatti di grandissimi chef italiani come Niko RomitoCaterina CeraudoMoreno Cedroni e Viviana Varese da ormai tredici anni. Serena Serrani ha risposto ad alcune delle mie domande sul loro lavoro. “Tutto è partito da Francesca, che già era in questo mondo, mentre io venivo dalla fotografia di scena. Accomunate dalla passione per l’enogastronomia abbiamo iniziato a scattare, rigorosamente insieme, il cibo. Dall’inizio alla fine di un progetto.”

In questo mondo da anni e anni, giusto domandare cosa è davvero cambiato. “È cambiato l’approccio da parte dei clienti, che si sono ritrovati improvvisamente con molta più offerta. Solo che spesso non sono lavori di qualità. Quello che abbiamo cercato noi, invece, è sempre stata la qualità di uno scatto, delle luci, prima ancora di tutto questo hype che c’è ora. Ovviamente c’è stata un’evoluzione, una crescita, una pulizia. Quello che più ci soddisfa è l’essere umano che c’è dietro: per scattare al meglio un piatto bisogna conoscere la persona, è la cosa più bella, ci fa dare un taglio personale per ognuno di loro.”

Il rapporto con il committente è quasi sempre aperto nel loro caso: chi le chiama lo fa perché vuole il loro stile. In generale più si ha esperienza, più un cliente sembra affidarsi alle mani del fotografo. Magari non del tutto, ma in buona parte. La storia cambia quando i clienti sono privati o aziende: “in questi casi ci sono spesso degli art director a decidere, ma chef e editoria sono generalmente aperti alle nostre idee”, dice Serena Serrani. “Ovviamente siamo più contente se si affidano completamente a noi. La cosa che cambia rispetto al passato è che, con tutte le immagini che si vedono, anche gli chef ora riescono a spiegarti con precisione cosa vogliono. Il che significa creare qualcosa di soddisfacente”.

Il punto di vista dei fotografi di food è importante, ma non bisogna dimenticare che, nonostante tutto, la loro arte si deve in qualche modo scontrare con la commissione. Quindi dello chef.

“Le fotografie sono importantissime per noi perché prima di tutto sono un archivio”, afferma Paolo Griffa, chef del Grand Hotel Royal & Golf di Courmayeur. “Con il mio fotografo, Paolo Picciotto, collaboro da tanto, sa cosa voglio. Però succede spesso che lui non veda quello che vedi tu, quello che vuoi. Allora lui ti mostra l’inquadratura che ha pensato, tu dici quella che preferisci e si trova una quadra.”

Le prime impressioni, che lo vogliate o meno, contano. Una fotografia esiste in quell’attimo, può essere ricordata o ripresa per ricordarsi da dove si è partiti, cosa negli anni è cambiato.

Ecco, il fotografo di cibo è questo che fa: capisce, ascolta, sente e infine scatta. Per racchiudere nella foto di un piatto il territorio, la filosofia, l’essere umano che l’ha pensato e cucinato.

È un racconta storie potente e muto.

Andrea Strafile


Cannavacciuolo: «La tv aiuta il mio business, ma fuori dalla cucina mi annoio»

La bolla mediatica della cucina è destinata a scoppiare. Sono stati in tanti negli anni ad aver fatto questa previsione. Gianfranco Vissani fu tra i primi, nel 2012. Quattro anni dopo Davide Paolini l’ha scritto nel libro Il crepuscolo degli chef. La profezia, però, non si è ancora avverata. Anche se gli interrogativi non mancano. Sono i cuochi ad aver bisogno della televisione o la televisione ad aver bisogno dei cuochi? Ma soprattutto: gli impegni televisivi sono un ostacolo alla qualità della cucina di uno chef? «Per me questo è un momento felice della vita», ammette Antonino Cannavacciuolo, Ambasciatore del Gusto e terzo per fatturato in Italia secondo la classifica di Pambianco Strategie d’Impresa basata sui dati annui registrati nel 2017, con 9,9 milioni di euro con un incremento del 25%. «Non è che prima stessi male, ma fare televisione mi ha dato la possibilità di farmi conoscere e diventare un personaggio pubblico che cattura attenzione e investimenti – continua -. Essendo uno chef imprenditore questo mi dà la possibilità di far crescere le mie aziende».

Tutto questo ha un costo in termini personali?

«Ho cancellato le ferie e i giorni di riposo dalla mia vita. Registro i programmi quando Villa Crespi è chiusa; in alternativa mi sposto tra Milano e il lago d’Orta di notte e torno al ristorante appena finito di girare per essere sempre presente durante il servizio».

Quando hai cominciato con la televisione, avevi consapevolezza di quello che sarebbe accaduto?

«Non si può mai essere certi, ma lo speravo. Ho deciso strumentalmente di andare in televisione proprio per incrementare il business delle mie aziende, aumentare i posti di lavoro, avere la possibilità di aprire altri ristoranti per i ragazzi che lo meritano. Alcuni di loro dopo aver lavorato con me per anni hanno la tentazione di andare via, dando loro la possibilità di gestire in prima persona un altro ristorante possono sperimentarsi. In quest’ottica Villa Crespi sta diventando come una scuola che dà, poi, ai migliori la possibilità di crescere».

Il successo mediatico, però, è aleatorio. Non è detto che duri…

«Lo so bene che la televisione può dare tanto, così come può togliere altrettanto. Ma io sono un cuoco, per me la tv è solo un hobby. Finché qualcuno sarà felice di vedere i miei programmi io non ci sputo sopra. Se però un domani la tv non facesse più parte della mia vita, sarei felicissimo di tornare a divertirmi soltanto con i miei ristoranti e a riappropriarmi del mio tempo libero che, come dicono i grandi della terra, è la vera ricchezza. In questo senso, al momento, sono poverissimo».

Tu condividi ogni responsabilità con tua moglie Cinzia. Quanto è importante la sua collaborazione?

«È fondamentale perché abbiamo una comunità d’intenti: di solito nella coppia c’è chi spinge e chi frena. Lei, per quanto possibile, negli affari è anche più aggressiva di me, incontrarla per me è stato come fare un terno al lotto. In questo mestiere avere al proprio fianco una donna che comprende e condivide il lavoro è importante; infatti lo dico sempre ai miei ragazzi perché mi è capitato di vedere persone valide accontentarsi di lavorare in mensa o in contesti meno performanti perché compagne o compagni non accettavano il fatto che nelle nostre cucine non ci sono orari e feste. Quello che facciamo io e Cinzia, però, non è finalizzato ad accumulare danaro che, come è sotto gli occhi di tutti, continuiamo a investire: alle attività già avviate se ne aggiungeranno a breve altre tre o quattro».

Sei più cuoco o più imprenditore?

 «Stare in cucina per me è fondamentale. Chiunque viene nel mio ristorante mi trova: non lo faccio per dovere, ma per piacere. Io amo cucinare, impiattare, stare con i miei ragazzi e motivarli. Quando non sono ai fornelli mi annoio».

La sovraesposizione televisiva degli chef ha fatto sì che i ragazzi siano affascinati da questa professione pensando che poi faccia conquistare visibilità e successo. Non sarebbe meglio che ne conoscano anche gli aspetti più difficili?

 «Io non so perché tutti siate convinti di questo. A Masterchef, per esempio, io e i miei colleghi non perdiamo occasione per ricordare quanto sia difficile il lavoro del cuoco, che è un mestiere che toglie tanto e al quale si deve sacrificare buona parte della propria vita. Io ho 43 anni e lavoro in cucina da 30 anni perché questo era il mio desiderio. Ricordo che mio padre ha cercato di dissuadermi in tutti i modi prima facendomi lavorare con lui per due anni dalle 8 del mattino a mezzanotte; poi, dal momento che non cambiavo idea, chiedendo a un suo amico a capo del ristorante di un hotel cinque stelle a Sorrento di riuscire dove lui non aveva potuto. Ma nemmeno lui riuscì a farmi deviare dalla strada che avevo scelto».

Oggi esiste una “tendenza bistrot” anche per gli stellati, tu stesso ne hai aperto due. Si tratta di un escamotage per mantenere economicamente il business?

 «Non per me, ogni mia attività deve essere economicamente indipendente. Poi ognuno può decidere di aprire un’attività in perdita perché è strumentale al proprio business, ma in quel caso le valutazioni sono altre».

Per anni la cucina italiana nel mondo è stata identificata soltanto con pasta e pizza. Adesso le cose stanno cambiando?

«La verità è che ci hanno sempre disegnato così, però i giapponesi da decenni vengono a pescare nel Mediterraneo. Al di là della cucina amata da tutti, a essere iconici sono i nostri prodotti agroalimentari d’eccellenza di cui, purtroppo, molti approfittano con il cosiddetto Italian sounding».

Deve cambiare la comunicazione?

 «Non lo so, questo non rientra nel mio ambito di conoscenza. Ma i marchi italiani di qualità sono ben riconosciuti all’estero. È diverso, invece, quando la qualità si abbassa…».

Mariella Caruso


Ristorazione familiare a conduzione aziendale

Non c’è dubbio che la ristorazione italiana sia tra le migliori al mondo. Ma non tutti si sono chiesti quali possano essere i problemi di un impianto tanto importante per il nostro paese. Tra turismo, tradizione, forte identità territoriale, ricette del luogo e convivialità, spesso ci sfugge un particolare.

Fare ristorazione significa fare imprenditoria. Bisogna allora dire basta alle conduzioni raffazzonate, occorre che le imprese famigliari si evolvano.

Fin dalla suo primo convegno nel 2017 intitolata “Italia-Mondo, Andata e Ritorno”, gli Ambasciatori Del Gusto hanno voluto porre l’accento su uno degli aspetti che più preme – e che più deve premere a tutti-: la corretta gestione di un’attività. Creare un’Associazione che possa valorizzare al massimo il Made in Italy nel mondo significa partire da basi solide. Da sempre sinonimo di economia stabile, dunque conseguentemente, florida. A quel tempo l’economista Saverio Salvemini con un deciso intervento in apertura, mise subito in chiaro che “Anche nel campo della ristorazione ci si deve presentare come azienda e non come persona fisica e pensare alla successione perché l’azienda deve essere vivere nel tempo e occuparsi della ricerca dei capitali e dell’organizzazione”.

Bisogna superare alcuni limiti, i conti scritti sulle tovagliette di carta in trattoria, le contrattazioni di qualche centesimo sul prezzo degli ingredienti e, soprattutto, la gestione blanda del capitale. In cui ci si focalizza solo sugli aspetti materialmente più alla portata come food cost e dipendenti.

Il ristorante è, a tutti gli effetti, un’impresa. E le imprese per prosperare nel presente e nel futuro, hanno bisogno di idee nuove, investimenti e progetti a lungo raggio. Le figure all’interno di un qualsiasi locale, sia esso ristorante stellato o un’osteria storica, devono essere preparate e puntuali. Insomma, basta con le zie alla cassa che fanno i conti a fine servizio e basta con i fratelli improvvisati camerieri perché non sapevano cosa fare. E perché, diciamolo, in Italia c’è sempre la volontà di portare avanti un’attività di padre in figlio.

Fortunatamente qualcosa sta cominciando a muoversi: la consapevolezza che nel 2019 non sia più possibile aprire la serranda, cucinare, incassare e abbassarla di nuovo, si sta facendo strada toccando strati più o meno visibili. Dall’importanza dei social alla gestione economica.

Per capire quali sono le possibili chiavi di una ristorazione-impresa, abbiamo chiesto il parere di alcuni Ambasciatori Del Gusto. Si può facilmente riscontrare che, alla base di una struttura solida, ci sia sempre il fattore umano. In tutti i casi c’è la consapevolezza che il rapporto umano tra imprenditore e dipendente, così come tra imprenditore e produttore, sia il vero grado zero di un’azienda.

La storia dei fratelli Christian e Manuel Costardi e del loro ristorante Christian&Manuel a Vercelli, è un buon paradigma della dicotomia conduzione famigliare-conduzione aziendale. L’hotel Cinzia, dentro il quale sorge il loro ristorante, è infatti proprietà della loro famiglia da tre generazioni e non ha mai abbandonato il suo carattere caldo. Pur ricevendo un riconoscimento internazionale anche per la sua conduzione impeccabile.

Sicuramente quello che oggi è importante è il non perdere il carattere familiare”, ha detto Christian. “Perché è quella la vera chiave del rapporto migliore con i clienti. Il nostro albergo l’hanno costruito i nostri nonni nel 1967, quindi abbiamo vissuto tutte le fasi.

Come si può mantenere il calore di casa se lo si unisce alla moderna gestione?

“In primis bisogna fare un uso maggiore di tecnologia. Dai sistemi di prenotazioni più avanzati come Superbe, che permettono sia di prenotare che di occuparsi della parte di gestionale, fino alla carta dei vini. Ormai sono anni che la nostra carta dei vini è su tablet. Questo ci permette di modificare la cantina e aggiornare il sistema in tempo reale. Se manca una bottiglia lo vedi subito. Se vuoi un determinato vino hai una barra di ricerca e non sei in balia delle decine di pagine”.

Il consiglio di Christian è quello di pensare a un’azienda all’avanguardia mantenendo il cuore di una trattoria. Perché quella parte calorosa è tra le cose più caratteristiche e affascinanti dell’Italia.

Per capire meglio che non solo i ristoranti gourmet devono seguire delle linee guida rigide, è sembrato opportuno avere anche il punto di vista di Gennaro Battiloro. Battil’oro è la sua pizzeria, cucina e cocktail bar. L’anima però, rimane quella del pizzaiolo. “Il fattore umano è fondamentale per la memoria, ma soprattutto per l’identità”, ha detto Gennaro. “L’identità di un locale credo si ala prima cosa a cui guardare. Deve esserci una filosofia, un pensiero, delle caratteristiche che fanno del tuo locale qualcosa in cui la gente possa credere ciecamente. Per fare questo c’è bisogno dell’essere umano: a partire dal rispetto del team di lavoro, perché non devono più esistere gerarchie nette, ma condivisione, fino ad arrivare alle reti con i produttori. Non serve più aprire una busta e buttare in padella, bisogna conoscere. Conoscere e formare. L’istruzione è fondamentale, non deve più esistere una conoscenza empirica del mestiere”.

Anche Aurora Mazzucchelli, tra le migliori cuoche italiane, crede nel fattore umano come principio fondamentale nella riuscita di un progetto. E, come i fratelli Costardi, anche il suo ristorante Marconi è un’eredità di famiglia. “Non ci sono grandi trucchi. Bisogna vivere giorno per giorno con il pensiero al presente e al futuro. Ogni giorno si cerca di capire il valore umano. Sembra facile, ma non lo è: serve un forte equilibrio, spesso mancante, tra azienda e mondo del lavoro. Il mondo del lavoro.” Il mondo del lavoro in campo ristorativo è da sempre una delle più grosse falle del sistema ristorativo stesso. La fiscalità, i diritti del lavoratore vengono da una parte violati e dall’altra mal tutelati dallo Stato. Quindi dilaga il pagamento in nero e una quasi totale mancanza di attaccamento al progetto.

“Ci vuole passione da parte di tutti”, continua Aurora. “Io in primis tendo a guardare più l’aspetto della cucina che quello aziendale – anche perché mio fratello è molto più in grado di me-. Ma provo a capirne di più, a guardare oltre. A partire dalla spesa, che deve essere sempre perfetta o sono guai. A livello economico e a livello di sprechi.”

L’ultima intervista, non è certo ultima per importanza, anzi. L’aspetto umano è fondamentale, ma in questo caso viene perfettamente coniugato a una struttura imprenditoriale solidissima. Una scommessa vinta su tutti i fronti che non accenna a molare il colpo. FUD, il progetto firmato Andrea Graziano è l’esempio perfetto di come si possa fare una grandissima imprenditoria senza rinunciare alla qualità, alle relazioni con piccole realtà.

“Bisogna togliersi dalla testa l’improvvisazione. Non è più il momento di improvvisare”, conferma l’Ambasciatore Andrea Graziano. “Ci sono troppi aspetti da tenere in considerazione di cui si devono necessariamente occupare degli esperti. Chi pensava di fare soldi nella ristorazione senza un progetto ha capito a proprie spese che è impossibile.” Agenzie di consulenza, commercialisti preparati, una formazione solidissima. “La formazione è la cosa più importante da curare: è l’aspetto più costoso, che minaccia di esserlo ancora di più se fatta male. Serve la professionalità, il food cost è quasi l’ultimo degli aspetti. A che serve avere una cassetta di zucchine a un euro in meno se poi il personale non è adeguato?”

I consigli di Andrea sono quelli di strutturarsi fin dal principio: la parte contabile alla base, fino ad arrivare a un professionista social e ufficio stampa interni. “Ed è qui che parliamo di aspetto umano. Chi lavora nei miei locali deve conoscere tutto. Dalla provenienza del formaggio alla filosofia aziendale. I ragazzi in sala, in cucina e anche la social che deve raccontarci, voglio che stringano la mano al produttore”.

Il food cost è la parte minore, ma i costi degli altri strumenti no. Ecco perché anche la questione delle pulizie nei FUD d’Italia è calcolata al centilitro. “Si spreca molto di più buttando cascate di detersivo – oltre a nuocere- che a comprare il cibo a meno.”

Creare una grande impresa nella ristorazione si può. E aprire la porta tutti i giorni non basta più, forse non è mai bastato davvero.

Andrea Strafile


Bowerman e Marchi confermati al vertice degli Ambasciatori per altri 3 anni

Squadra che vince non si cambia. L’assemblea degli Ambasciatori del Gusto, a tre anni dalla sua fondazione, ha confermato la propria fiducia a Cristina Bowerman. Sarà ancora la chef pugliese, tra i soci fondatori degli Ambasciatori del Gusto, a guidare per un altro triennio l’Associazione che si è prefissa la scopo di “rafforzare e valorizzare la cultura agroalimentare ed enogastronomica italiana di qualità”.

«In soli tre anni di lavoro l’Associazione ha raggiunto un grado di autorevolezza non indifferente tanto da essere chiamata a dare il proprio contributo ogni qualvolta ci siano da affrontare questioni importanti legate all’enogastronomia italiana. Un risultato che è la conseguenza del taglio che noi abbiamo voluto dare al nostro associativismo che è mettere a disposizione il nostro patrimonio intellettivo e la nostra esperienza per la crescita di un settore strategico per noi e per il Paese», sottolinea Cristina Bowerman che è stata tra coloro che hanno gettato le basi dell’Associazione e hanno definito la strada da seguire. Una vita fatta di pochissimi lustrini e tanti progetti già in atto a partire da Fare Formazione che, cominciato per dare una mano al Centro di formazione professionale alberghiero di Amatrice, si è allargato grazie alla convenzione con Renaia a un progetto di formazione continua sia di studenti, sia dei loro insegnanti su tutto il territorio nazionale. Tra gli altri progetti c’è la convenzione con la Lum – Jean Monnet di Bari per l’istituzione di un corso di laurea per cuochi imprenditori, il bando per le microimprese italiane che sviluppano progetti relativi alla filiera agroalimentare per redistribuire i fondi assegnati all’Associazione dall’Accademia Italiana della Cucina insieme al premio Orio Vergani e l’impegno per la semplificazione dei controlli con l’istituzione di un Libro Unico dei controlli. «A tal proposito la legge regionale del Lazio che prevede un database unico tra Guardia di Finanza e Agenzia delle Entrate è diventata, anche grazie al nostro contributo – sottolinea la riconfermata numero uno dell’Associazione – una proposta a livello nazionale che sarà discussa a breve in Commissione dopo lo slittamento del 15 dicembre». E poi la partecipazione dell’Associazione ad appuntamenti importanti come Seeds&Chips, il Congresso Identità Golose, Exellence e Gente di Lago solo per citarne alcuni.

«Questa riconferma mi fa molto piacere perché mi darà la possibilità di continuare a lavorare ai nostri progetti che sono in continua evoluzione», sottolinea la presidente già al lavoro anche sul terzo 3° Convegno annuale degli Ambasciatori del Gusto legato, come da tradizione a una cena di raccolta fondi in programma a Napoli il  29 e 30 settembre 2019. «Uno dei nostri obiettivi è il maggior coinvolgimento degli Ambasciatori del Gusto del Sud, professionisti che, anche per questioni logistiche – aggiunge Bowerman – sono molto abituati a lavorare da soli».

A coadiuvare Cristina Bowerman ci sarà, ancora una volta, Paolo Marchi, eletto vice presidente dell’Associazione. «È giusto che anche il vice presidente sia eletto e non nominato», afferma Marchi ovviamente soddisfatto per la preferenza dell’Assemblea. «I temi della nostra Associazione – ammette il numero due degli Ambasciatori del Gusto – non sono accattivanti per la massa, ma importanti per tutta la categoria dei ristoratori che deve diventare “fattiva” anziché lamentarsi sulle cose che vanno male».

Tra i consiglieri, il cui numero è stato ridotto ridotto a nove, c’è il nuovo ingresso del siciliano Pasquale Caliri. «Sono felice che la mia candidatura, avanzata sulla spinta dei miei colleghi siciliani, si sia tradotta nell’elezione nel Consiglio direttivo. Noi operatori del Sud vogliamo fare parte di quest’Associazione in maniera attiva – sottolinea il neo consigliere -. Come detto dalla presidente Bowerman i professionisti del Sud devono aggregarsi di più per affrontare i progetti come categoria e l’Associazione dà la possibilità di discutere delle problematiche facendo sistema».

Mariella Caruso