Fotografare il cibo, la food photography, è una specializzazione tanto affascinante quanto rara, nonostante si possa pensare il contrario. Fin dall’avvento della fotografia, il cibo è stato soggetto muto delle pellicole. Se ne parliamo oggi, dobbiamo fare attenzione a separare quella di stampo pubblicitario con quella invece che è da considerarsi la vera food photography, che non sono in molti a fare. Presente nella maniera che conosciamo oggi fin dal primo Bocuse D’Or del 1987, quando ognuno degli chef aveva accanto il proprio fotografo, è il racconto di un piatto e di chi ci sta dietro.

Cosa significa fare food photography nel 2019? Per scoprire i lati di un’arte un po’ personale, un po’ al servizio di una committenza, abbiamo interpellato tre grandi fotografi italiani.

Andrea Di Lorenzo è un fotografo di food da dieci anni, da quando ne aveva 26. Ha scattato una copertina per il National Geographic, collabora con Munchies Italia, La Cucina Italiana, la catena di hotellerie Belmond, la rivista tedesca Feinschmecker in ambito giornalistico ed è fotografo di alcuni dei più grandi chef romani e non: Roy Caceres, Marco Martini, Ciro Scamardella di Pipero.

“Ho iniziato per caso tramite agenzia 10 anni fa”, mi dice. “Dai primi lavori per piccoli locali e pizzerie ho capito che poteva essere un rischio buttarsi in un tipo di fotografia tanto di settore, quanto una grandesoddisfazione. La chiave è stata appassionarsi, giorno dopo giorno, al mondo del cibo. Se non sei interessato al mondo che fotografi, non puoi veramente raccontarlo.” È un lavoro che paga, ma anche rischioso. Soprattutto quando non era ancora molto sentita la comunicazione, come lo è oggi. “Dieci anni fa non c’erano tutte queste intenzioni di comunicare. Le foto erano più che altro usate come archivio. Anche le esigenze dei clienti sono cambiate conseguentemente: penso sia giusto ascoltare il punto di vista dello chef. Il tuo stile deve essere riconoscibile, è il tuo biglietto da visita, ma il punto di vista può cambiare, e lui rimane sempre il committente.”

Oggi si lavora molto con gli uffici stampa dei ristoranti, spesso a strettissimo contatto. E questo, che potrebbe sembrare una limitazione, è invece in qualche modo un punto di forza. “Questo contatto stretto è molto importante per noi fotografi.”, conclude Andrea Di Lorenzo. “In questo modo possiamo avere un termometro di come si muove il mercato e, di conseguenza, qual è la maniera migliore di comunicare il cliente.”

Se parliamo di food photography in Italia, ma anche al di fuori, è impossibile non citare il nome di Lido Vannucchi. Lido viene chiamato per il suo stile unico. Ci sono due modi per fare questo lavoro: avere una riconoscibilità e avere uno stile preciso. Non significa che uno sia meglio dell’altro, sono solo due scelte di scattare differenti.

Ducasse e Bocuse avevano sempre i loro fotografi. Era un principio di comunicazione, era l’inizio della food photography, il racconto dietro al cibo”, dice Lido Vannucchi. “Sono ormai otto anni che scatto in questo mondo. Ho iniziato con la fotografia erotica in polaroid e poi ho virato su quella industriale e di prodotto. Ma la mia vera passione era l’enogastronomia: sono stato in cucina per anni e anche in sala come sommelier. Poi sono arrivati i primi incarichi. Il mio mentore è stato Bob Noto. Senza di lui non esisterei come fotografo di cibo”.

La visione di Lido Vannucchi è quella di un progetto dall’inizio alla fine: “Cerco di fotografare non un piatto, ma un’estetica. Ci deve essere una didascalia per me, a portare un quid in più. Alcuni cuochi riescono a capire la tua visione, altri hanno bisogno di essere accompagnati. Sei un trasmigratore di idee, e quando ti ascoltano si crea una bella comunicazione, che è poi la comunicazione del luogo, dei piatti e dallapersona.”

È sempre difficile riuscire a conciliare la propria arte con le esigenze del cliente, ci si riesce solo con un dialogo e un progetto ben definito, secondo l’esperienza di Vannucchi. “Ci vuole uno storytelling. Se il cliente non riesce a capirlo, allora subentra anche una consulenza d’immagine, che può essere anche scissa dagli scatti in sé. Hai la fortuna di lavorare con i più grandi chef d’Italia e cerchi di fargli capire cosa c’è dietro, cosa ne verrà fuori.” I suoi scatti raccontano le persone, ma anche la loro evoluzione. Con Adriano Baldassarre, ha curato il nuovo progetto Tordomatto dall’inizio, creando un immaginario. Con Gianfranco Pascucci sta raccontando la sua cucina che vira dal pesce al mare. E poi Cristiano Tomei, Enrico Crippa. Lido Vannucchi cerca di cogliere, nel tempo e nell’attimo, le sfumature per ricomporre una cucina identitaria.

Non solo di uomini è fatto questo mondo. Francesca Brambilla e Serena Serrani scattano i piatti di grandissimi chef italiani come Niko RomitoCaterina CeraudoMoreno Cedroni e Viviana Varese da ormai tredici anni. Serena Serrani ha risposto ad alcune delle mie domande sul loro lavoro. “Tutto è partito da Francesca, che già era in questo mondo, mentre io venivo dalla fotografia di scena. Accomunate dalla passione per l’enogastronomia abbiamo iniziato a scattare, rigorosamente insieme, il cibo. Dall’inizio alla fine di un progetto.”

In questo mondo da anni e anni, giusto domandare cosa è davvero cambiato. “È cambiato l’approccio da parte dei clienti, che si sono ritrovati improvvisamente con molta più offerta. Solo che spesso non sono lavori di qualità. Quello che abbiamo cercato noi, invece, è sempre stata la qualità di uno scatto, delle luci, prima ancora di tutto questo hype che c’è ora. Ovviamente c’è stata un’evoluzione, una crescita, una pulizia. Quello che più ci soddisfa è l’essere umano che c’è dietro: per scattare al meglio un piatto bisogna conoscere la persona, è la cosa più bella, ci fa dare un taglio personale per ognuno di loro.”

Il rapporto con il committente è quasi sempre aperto nel loro caso: chi le chiama lo fa perché vuole il loro stile. In generale più si ha esperienza, più un cliente sembra affidarsi alle mani del fotografo. Magari non del tutto, ma in buona parte. La storia cambia quando i clienti sono privati o aziende: “in questi casi ci sono spesso degli art director a decidere, ma chef e editoria sono generalmente aperti alle nostre idee”, dice Serena Serrani. “Ovviamente siamo più contente se si affidano completamente a noi. La cosa che cambia rispetto al passato è che, con tutte le immagini che si vedono, anche gli chef ora riescono a spiegarti con precisione cosa vogliono. Il che significa creare qualcosa di soddisfacente”.

Il punto di vista dei fotografi di food è importante, ma non bisogna dimenticare che, nonostante tutto, la loro arte si deve in qualche modo scontrare con la commissione. Quindi dello chef.

“Le fotografie sono importantissime per noi perché prima di tutto sono un archivio”, afferma Paolo Griffa, chef del Grand Hotel Royal & Golf di Courmayeur. “Con il mio fotografo, Paolo Picciotto, collaboro da tanto, sa cosa voglio. Però succede spesso che lui non veda quello che vedi tu, quello che vuoi. Allora lui ti mostra l’inquadratura che ha pensato, tu dici quella che preferisci e si trova una quadra.”

Le prime impressioni, che lo vogliate o meno, contano. Una fotografia esiste in quell’attimo, può essere ricordata o ripresa per ricordarsi da dove si è partiti, cosa negli anni è cambiato.

Ecco, il fotografo di cibo è questo che fa: capisce, ascolta, sente e infine scatta. Per racchiudere nella foto di un piatto il territorio, la filosofia, l’essere umano che l’ha pensato e cucinato.

È un racconta storie potente e muto.

Andrea Strafile