La formazione di sala vista dalla cattedra

«L’attività del cameriere, dell’oste in generale, è quella che ha reso famosa l’Italia nel mondo. Noi italiani siamo sempre stati leader, non per la cucina, ma per la nostra ospitalità. I nostri prodotti sono in cerca disperata di interpreti e la sala è il reparto vendite del ristorante». A parlare così è Andrea Sinigaglia, general manager di Alma, la Scuola Internazionale di Cucina Italiana di Colorno fondata da Gualtiero Marchesi, che ospita un corso per Professionista di Sala, Bar & Sommellerie. A lui e a Dominga Cotarella, fondatrice con le cugine Marta ed Enrica di Intrecci, scuola di Castiglione in Teverina per l’Alta Formazione di Sala, abbiamo chiesto qual è la formazione di un professionista di sala e quali dovrebbero essere le caratteristiche giuste di un giovane che voglia intraprendere questo mestiere. «Ho sempre vissuto la sala come cliente frequentando, da produttrice di vino, per lavoro tanti ristoranti in Italia e all’estero – chiarisce subito Cotarella – e il comune denominatore era spesso un “problema sala”. E siccome sono dell’idea che un problema che abbia una soluzione è un’opportunità, mi sono chiesta perché a fronte di una cucina che andava sempre più in profondità ci fosse una sala che non cresceva. Per questo con le mie cugine ci siamo riproposte di partire dalla formazione per fare rinnamorare i ragazzi della sala fondando Intrecci».

L’ALMA, IERI E OGGI. «All’Alma abbiamo cercato sin da subito di fare formazione per la sala, ma non abbiamo riscontrato nei giovani lo stesso interesse a formarsi in quel mondo rispetto ai corsi di cucina e pasticceria – osserva Sinigaglia -. Negli ultimi 4/5 anni, invece stiamo vivendo un Rinascimento della sala, del valore di questo mestiere e della sua tradizione. Da tre anni abbiamo dei corsi di sala che ci danno grandissima soddisfazione, mandiamo i ragazzi in stage in ristoranti in Italia e nel mondo riscontrando un tasso molto alto di occupazione post corsi». A cambiare le carte in tavola facendo diventare appetibile il mestiere del cameriere, secondo Sinigaglia, è stata «la disperazione» del sistema ristorativo. «A un certo punto gli operatori hanno capito che una cucina senza sala non funziona, anche i cuochi si sono accorti che senza un buon reparto vendite e marketing il loro lavoro non poteva essere finalizzato, e quindi occorreva finalizzare e rigenerare un settore basilare», riflette il general manager dell’Alma. Ad aiutare ulteriormente la crescita della sala è arrivata anche «una corretta informazione e la consapevolezza che chi fa il cameriere, al pari di un cuoco, può girare il mondo e avere tante soddisfazioni, anche a livello economico».

INTRECCI. Di più recente costituzione, e soprattutto riservati esclusivamente alla formazione di sala, l’obiettivo dei corsi di Intrecci è «fare diventare questo mestiere un po’ bistrattato non un ripiego, ma una scelta di vita – sottolinea Cotarella -. In Italia abbiamo dei modelli vincenti in questo mestiere, avere un modello significa avere un’opportunità di crescita e un desiderio di superare partendo dallo studio. Certo la sala non ha il fascino della cucina, ma al contrario di quanto possa apparire è fondamentale per un ristorante perché il benvenuto viene sempre prima del buon appetito. E poi non è mai lo chef ad accogliere, ma chi apre la porta, fa sedere al tavolo e ha un rapporto costante con il cliente. In un ristorante si ritorna se il servizio è stato buono».

LE QUALITA’ IN SALA. Quali sono le qualità che un aspirante operatore di sala dovrebbe avere? «Intanto un ragazzo che viva pienamente l’italianità è già a metà del cammino – afferma Sinigaglia -. Italianità vuole dire calore nell’accoglienza, ironia. Ma il requisito numero uno è comprendere se si è affetti da quello strano virus per cui si prova piacere nel far star bene gli altri». «Negli ultimi mesi ho incontrato più di 100 ragazzi per sceglierne solo 15 – aggiunge Cotarella – e il criterio che ho utilizzato è l’“entusiasmometro”, ovvero la quantità di entusiasmo nei confronti di questo mestiere che i ragazzi mi hanno trasmesso».

I PROGRAMMI. Con quali strumenti devono essere rifinite le qualità degli aspiranti camerieri? «Classe, stile, portamento sono le prime cose che insegniamo – spiega Sinigaglia – oltre a come essere attenti, avere il sorriso al momento giusto. L’altra cosa è la conoscenza delle lingue, le conoscenze di base sul mondo del vino, dei condimenti, del mondo dei prodotti speciali e d’eccellenza». «A Intrecci abbiamo un approccio olistico con un programma di studio annuale che comprende 6 mesi di permanenza in forma residenziale e 6 mesi di stage», puntualizza, invece, Cotarella il cui sogno è far diventare accademico il percorso formativo di Intrecci. «Nella scuola si studiano materie classiche come sommellerie, portamento e stile e altre inconsuete come teatro, con un regista che aiuta a superare la timidezza, ed economia. Poi ci sono le lingue con due tutor, uno per l’inglese (che è la lingua ufficiale) e un altro per il francese perché alcuni termini di quella lingua sono fondamentali in questo mestiere. Poi – conclude – ci sono sei mesi di stage per i quali le richieste superano il numero dei nostri studenti perché ci sono molti posti vacanti a fronte di pochissimi professionisti senza lavoro».
Mariella Caruso
Per la critica tricolore il miglior sommelier italiano è Marco Reitano
Il vino per lui non ha segreti. Nei suoi 45 anni di vita ne ha assaggiati oltre 70.000 e, nella cantina del ristorante La Pergola dell’Hotel Rome Cavalieri, ne gestisce oltre settantamila bottiglie di oltre 3500 etichette. Parliamo dell’Ambasciatore del Gusto Marco Reitano, già Chevallier de l’Ordre des Coteaux de Champagne, vincitore del Grand Award di Wine Spectator per la carta dei vini, miglior sommelier italiano per l’Ais nel 2001 e per la guida Identità Golose nel 2012. A ribadire l’accuratezza del suo lavoro è arrivato, adesso, il riconoscimento da parte di 22 critici e giornalisti professionisti della gastronomia in Italia che lo hanno messo in cima alla classifica dei migliori sommelier italiani nel blog gestito da Luciano Pignataro.
A votare sono stati Paolo Marchi di Identità Golose, Guido Barendson (Repubblica Sapori), Clara Barra (Gambero Rosso), Alessandro Bocchetti (Guide Gastronomiche), Fabrizio Carrera (Cronache di Gusto), Alberto Cauzzi (Passione Gourmet), Daniele Cernilli (Doctor Wine), Luigi Cremona (Touring Club), Antonella De Santis (Gambero Rosso), Aldo Fiordelli (Civiltà del Bere, Corriere Fiorentino), Luciano Ferraro (Corriere della Sera), Licia Granello (Repubblica), Barbara Guerra (lsdm – 50 Top Pizza), Luca Iaccarino (Dissapore), Alberto Lupetti (Le mie Bollicine), Alberto Lupini (Italia a Tavola), Luciano Pignataro (Il Mattino), Massimiliano Tonelli (Gambero Rosso), Albert Sapere (lsdm – 50 top pizza), Antonio Scuteri (Repubblica Sapori), Giampaolo Trombetti (Rai Due) e Lorenza Vitali (Witaly).

Gli Ambasciatori come possono farsi portatori di questo tipo di concetti?
«Partendo dal territorio. Sono pochi al mondo i paesi come l’Italia in cui esistono tante cucine locali, tutte strettamente legate ai prodotti della terra. Sono convinto che è grazie a questo legame con agricoltori, allevatori e casari, che ci forniscono ogni giorno ciò che lavoriamo in cucina, che abbiamo raggiunto la nostra terza stella».
Qual è il valore aggiunto che Marco Reitano, anche presidente di Noi di Sala, dà alla sua professione? Probabilmente è l’amore per il suo lavoro che lo fa essere, con il maitre e il personale di sala, il trait d’union tra la cucina e il cliente. La sua competenza – insieme alla sua simpatia da romano purosangue – lo fa entrare subito in rispettosa connessione con i commensali ai quali riesce sempre a consigliare il meglio, senza dimenticare, quando necessità, il rapporto qualità/prezzo. Ma, soprattutto, ricordando sempre che un pessimo accoppiamento tra piatto e vino può rendere dimenticabile la portata perfetta.
Mariella Caruso
In cucina la sostenibilità deve diventare un imperativo

«La sostenibilità deve cominciare nella testa di ognuno, e per ognuno può avere un diverso significato». Il pensiero è dell’Ambasciatore del Gusto Norbert Niederkofler, paladino dell’antispreco, del rispetto della natura e del lavoro dei contadini. Da un decennio lo chef altoatesino ha adottato la filosofia della cucina del territorio. «Le buone pratiche in cucina cominciano sin dall’acquisto della materia prima e per uno chef è un dovere conoscere i prodotti che lavora», continua Niederkofler che è tra i fondatori di Care’s, The Ethical Chef Days, evento per discutere di sostenibilità e di etica nell’alta cucina al quale, nell’edizione 2018 organizzata in Val Badia dal 14 al 17 gennaio hanno partecipato anche le Ambasciatrici Martina Caruso e Antonia Klugmann.

Gli Ambasciatori come possono farsi portatori di questo tipo di concetti?
«Partendo dal territorio. Sono pochi al mondo i paesi come l’Italia in cui esistono tante cucine locali, tutte strettamente legate ai prodotti della terra. Sono convinto che è grazie a questo legame con agricoltori, allevatori e casari, che ci forniscono ogni giorno ciò che lavoriamo in cucina, che abbiamo raggiunto la nostra terza stella».
Cosa intende esattamente per legame?
«Coinvolgere nella filiera dell’alta cucina i piccoli produttori che prima erano esclusi dal monopolio delle grosse aziende. Oggi al St. Hubertus lavoriamo con 30/40 fornitori, li conosciamo uno per uno, conosciamo le loro aziende e le problematiche che affrontano ogni giorno e ci facciamo coinvolgere nella loro vita instaurando relazioni umane che sono alla base dei nostri rapporti commerciali».

Sostenibilità, quindi, vuol dire anche creare un circuito virtuoso?
«Ricompensare nella giusta maniera il lavoro che c’è dietro un prodotto è anche una questione di etica. Nel caso del contadino la vendita diretta senza intermediazione permette di poter proseguire la conduzione dell’azienda e, nello stesso tempo, di evitare le monocolture che, intensive o meno, impoveriscono il terreno. È vero che siamo solo chef ma è bene che ci si renda conto che, a lungo termine, con le monocolture non ci potrà essere nutrimento per gli 8/9 miliardi di persone. Inoltre gli chef, al di là della preparazione dei piatti, hanno anche la responsabilità di comunicare il proprio “pensiero” sul cibo e la visibilità del cuoco aiuta in questo compito».
Come si può fare educazione alla gente comune?
«Facendosi portavoce della propria filosofia. Un’altra cosa importante, in questo periodo, è che i giovani siano coscienti di cosa significhi stare in cucina. Oggi molti giovani ambiscono a diventare chef, ma lo fanno perché pensano al successo. Attenzione però, fare lo chef e andare in televisione sono due mestieri diversi. Per fare lo chef non ci sono scorciatoie, bisogna studiare e avere una base classica importante: senza quella diventa impossibile non sprecare in cucina. E quando si spreca non si guadagna».
Mariella Caruso
I disabili psichici entrano in cucina con Lakkitu

Lakkitu è una parola finlandese: il suo significato è cucchiaio ovvero «l’unica tra le posate che non può far male, quella che raccoglie e accoglie», spiega Cristian Clemente dell’Agenzia pilota di mediazione sociale Anmil – Associazione nazionale fra lavoratori mutilati e invalidi sul lavoro – onlus. È questo è il motivo per cui “Lakkitu” è il nome scelto da Anmil, che usa spesso il finlandese («Una lingua allegra ideale per i nostri più delicati progetti»), per dare il titolo al percorso di orientamento e formazione mirato nell’ambito della ristorazione riservato ai disabili psichici . Nell’ambito di Lakkitu gli allievi hanno imparato le basi del mestiere di aiuto cuoco e addetto alla sala acquisendo competenze spendibili sul mercato del lavoro anche perché, in virtù del Jobs Act e in seguito al decreto Milleproroghe 2017, oggi anche gli operatori della ristorazione con oltre 15 dipendenti hanno l’obbligo di assumere un lavoratore con disabilità, pena una sanzione di 153,20 € al giorno. Al corso base tenuto dalla psicologa-chef Maria Elena San Gregorio sono state aggiunte delle “lezioni speciali” tenute da professionisti. Tra questi anche l’Ambasciatore del Gusto Cesare Battisti.

«È stata un’esperienza interessante e, nello stesso tempo, emozionante», ha ammesso Battisti che agli undici corsisti della classe, di età compresa tra i 20 e i 45 anni, ha parlato di “specialità milanesi” mettendo al centro della lezione risotto, mondeghili, cotoletta. Ma non solo. «Ho sposato il progetto cercando di coinvolgere i corsisti chiacchierando con loro del lavoro del cuoco, di cosa accade in un ristorante e di qual è l’impegno richiesto per operare in una cucina professionale. Naturalmente facendo i dovuti distinguo perché le disabilità sono tutte diverse», sottolinea Battisti. «Ho cercato anche di parlare loro dei possibili futuri sbocchi professionali che variano a seconda delle loro disabilità perché può esserci chi non può sostenere lo stress di un servizio ma, ad esempio, potrebbe essere perfetto per il mondo delle preparazioni o per il lavoro nelle mense». Un altro aggettivo adatto alla partecipazione di Cesare Battisti al progetto è «gratificazione» che è stata a doppio binario. Se da una parte i ragazzi sono stati gratificati dall’essere riusciti a ottenere risultati concreti dal loro impegno, dall’altra la gratificazione è stata anche di Battisti. «Con dispiacere dico che progetti fatti così bene ce ne sono troppo pochi a fronte delle molte persone con disabilità che hanno difficoltà a inserirsi nel mondo del lavoro. Mi piacerebbe – sottolinea – riuscire a coinvolgere anche altri miei colleghi in attività di questo tipo»
Mariella Caruso
Gli Ambasciatori del Gusto fanno alta formazione al Centro professionale Alberghiero di Amatrice
Saranno i Fratelli Serva, Renato Bosco, Marco Stabile, Mariella Caputo, Marco Reitano e Carlo Cracco, tutti Ambasciatori del Gusto, a mettersi in cattedra al Centro di formazione professionale alberghiero di Amatrice per due giornate di alta formazione dedicata agli studenti del quarto anno organizzate nell’ambito dell’iniziativa “7 Chef per Amatrice” grazie a una convenzione con Istituzione Formativa Rieti che attraverso i fondi di Regione Lazio eroga l’offerta formativa alla scuola.
A loro gli Ambasciatori parleranno di riscoperta e valorizzazione del pesce d’acqua dolce; dell’utilizzo del lievito madre in panificazione, in pizzeria e in cucina; del cucinare insieme; della cottura delle carni e, per finire, dell’accoglienza, del servizio in sala e il ruolo del sommelier.
«Il progetto è stato ideato per dare una mano all’istituto potenziando l’offerta didattica con l’aiuto degli Ambasciatori del Gusto», spiega Gianmaria Radice, responsabile dell’iniziativa “Fare formazione” per conto dell’Associazione. «Tutto è nato – continua Radice – sulla spinta dell’Ambasciatore del Gusto Carlo Cracco e della sua solidarietà ad Amatrice dopo il terremoto dell’agosto 2016. È stato così che siamo venuti a conoscenza della situazione della Scuola professionale per i mestieri di sala e cucina che ha sede nel Comune reatino e abbiamo pensato di strutturare un aiuto che rientrasse nello spirito dell’Associazione che ha tra i suoi obiettivi la costruzione di modelli formativi per gli istituti di istruzione secondaria superiore dedicati ai mestieri della ristorazione».
LA STORIA – L’istituto, fino al tragico terremoto dell’agosto 2016, era uno dei fiori all’occhiello della cittadina “culla” dell’Amatriciana. Poi la mancata agibilità della sede della Scuola professionale e l’incertezza che ha preceduto il trasferimento delle attività scolastiche a Rieti, nei locali messi a disposizione dalla Sabina Universitas, insieme alla paura di nuovi eventi sismici, hanno frenato le iscrizioni. Già in quel momento l’Associazione Italiana Ambasciatori del Gusto ha raccolto l’appello del Centro di Formazione Professionale, invitando gli studenti a iscriversi e studiando “pacchetti formativi” di specializzazione. A questo si è affiancata la volontà di raccogliere fondi destinati a sostenere la scuola, che nonostante le difficoltà psicologiche e logistiche post sisma, ha continuato a lavorare per formare personale di alto profilo.
«In questo momento ancora di grande difficoltà offrire ai nostri ragazzi un’opportunità di crescita professionale significa aiutarli a rinascere e ad avere ancora una speranza per il futuro – commenta Anna Fratini, che sta seguendo il progetto per conto della Scuola -. Questo progetto di formazione che i grandi chef vogliono condividere con i nostri ragazzi, al di là del grande gesto di generosità, sarà per loro non solo un momento di vicinanza, ma diventerà e resterà per sempre un bagaglio di esperienza che certamente li aiuterà a realizzare il loro progetto di vita lavorativa».
«FARE FORMAZIONE» – Per contribuire fattivamente alla rinascita del Centro professionale per i mestieri di sala e cucina è nato il progetto “Fare formazione” che gli Ambasciatori del Gusto hanno sostenuto con l’evento benefico “7 Chef per Amatrice”. L’Associazione ha ideato per l’occasione una cena a isole preparata da 7 Ambasciatori del Gusto, nonché Maestri della cucina italiana, rispondenti ai nomi di Antonello Colonna, Enrico Bartolini, Paolo Brunelli, Martina Caruso, Pietro Leemann e Francesco e Salvatore Salvo, che hanno offerto il loro talento rivisitando la tradizionale ricetta dell’Amatriciana accompagnata dai cocktail a base di Gilmach.gin ideato dall’Ambasciatore Alessandro Gilmozzi e Andreas Bachmann. Una serata organizzata lo scorso 2 ottobre che ha avuto come palcoscenico l’Open Colonna di Roma, che ha permesso di raccogliere, grazie alla generosità dei partecipanti, 10.000 euro che saranno utilizzati per l’organizzazione del progetto.
Mariella Caruso
Facciamo innamorare i giovani della sala
«Il successo di un cuoco e di un ristorante passa sempre attraverso la sala. Anche con una cucina ricca di talento e ottimi ingredienti un progetto non si compie senza una sala all’altezza». L’Ambasciatore del Gusto Beppe Palmieri, maître dell’Osteria Francescana di Massimo Bottura, è un testimone eccellente delle sue parole. «Quando si lavora a un progetto, così come si decide di investire su poltrone di qualità e su una brigata di cucina appassionata, non bisogna dimenticare il passaggio fondamentale della sala – spiega Palmieri -. Ho visto progetti costati milioni fallire perché gli imprenditori non avevano capito che non bastava investire sono nell’arredamento o nel foie gras israeliano ma, prima di tutto, sulla sala».

Oggi sono tanti i giovani che alla sala preferiscono l’idea di un futuro da “star” in cucina…
«Ho avuto la fortuna di cominciare a lavorare negli anni 90. Ancora giovanissimo sono stato a Villa Crespi e alla Locanda Solarola con Bruno Barbieri. A quel punto è arrivata la generazione dei nuovi cuochi italiani: Alaimo, Bottura, Crippa, Uliassi che sono diventati un punto di riferimento, hanno avuto una capacità di racconto tale da far sognare tutti noi che seguivamo un fenomeno che stava nascendo».
Un fenomeno che ha spostato gli equilibri di chi sogna un lavoro nell’alta ristorazione.
«I giovani considerano il cuoco una figura cui ambire, questo automaticamente ha fatto riempire le classi “cucina” dell’Alberghiero facendo rimanere vuote quelle dei mestieri di sala. Siamo comunque di fronte a un successo: forse c’è chi non ricorda che gli istituti alberghieri negli anni 80 e 90 erano considerati scuole di seconda fascia, per le famiglie erano la via di fuga per poter avviare i figli a un lavoro di cuoco o cameriere, occupazioni di seconda categoria. Poi son arrivati gli chef che han fatto sognare e i ragazzi hanno cominciato a voler diventare come Cracco o Alaimo».

Perché non sognano di diventare come Palmieri?
«Forse è frutto di un altro errore. Quando è iniziata la stagione dei congressi enogastronomici che ha riunito i protagonisti della gastronomia sarebbe stato sufficiente che noi maître affiancassimo gli chef sul palco. Ma io per primo mi ponevo il problema di come discutere di sala».
Adesso ha capito come si fa?
«Di sicuro senza fare polemiche. So che in Italia sarebbe facile attirare l’attenzione polemizzando, ma ritengo sia meglio mettersi a discutere di argomenti concreti senza puntare il dito contro le cose che non vanno. Per questo, dal 2011, ho iniziato a parlare dell’argomento sala con giornalisti, blogger e addetti del settore prima organizzando alcune cene a casa mia che via via sono cresciute nel numero dei partecipanti. Poi ho continuato a farlo attraverso il mio blog Glocal».
Quali sono i temi fondamentali di cui trattare?
«Cameriere non si nasce, si diventa; l’importanza del gruppo; l’importanza di investire sulla sala per il successo di un ristorante e per consacrare l’abilità di un cuoco».
Quindi occorrerebbe portare gli operatori di sala ai congressi?
«I congressi sono un’opportunità storica, ma noi siamo sempre sul palco, abbiamo un rapporto continuo con i clienti. Stare in sala è una scelta di vita come la mia in Francescana. Io vivo la Francescana come se fosse mia, ma tutti riconosciamo la leadership di Massimo (Bottura, ndr) e siamo innamorati del progetto».

Come vede il suo domani?
«Non come un romanzo, ma come una storia vera e difficile che scrivo giorno per giorno insieme alle persone con cui lavoro e con cui fare crescere la sala».
Qual è la giusta formazione per il personale di sala?
«Il cuoco deve formarsi dal punto di vista accademico: al di là delle materie prime la tecnica per fare il risotto è sempre la stessa. Il personale di sala, invece, ha bisogno di palestre in cui allenarsi, capire gli strumenti e cucirseli addosso a seconda del posto in cui fa il servizio. Detto questo la scuola è fondamentale per conoscere i contenuti».
I programmi ministeriali sono adatti?
«In tanti dicono che sono sorpassati, ma io non amo l’approccio polemico e sono abituato a trasformare i vincoli in opportunità. Quindi prendiamo quel poco di buono che la scuola offre ai giovani per avvicinarli al mondo della ristorazione in cucina e in sala, ovvero la pratica. Poi ognuno dovrà metterci del suo».
In che senso?
«Io sono uno che ha ribaltato i pronostici. Vengo da Matera e sono scappato dalla cultura del lamento: lavoravo per 400mila lire al mese, ma avevo lo sguardo rivolto al futuro. Ho investito su me stesso e sui doveri del mio lavoro. Oggi, invece, ci preoccupiamo sempre dei diritti che abbiamo, sempre meno dei doveri che fanno arrivare grandi risultati»

Doveri a parte, quali sono le qualità giuste per un uomo di sala?
«Un uomo di sala deve avere grandi qualità dal punto di vista umano e deve essere in grado di servire. “Servire” è un elemento cardine del lavoro di sala, io sono fiero di essere un cameriere (ed è così che preferisco essere chiamato, mi imbarazza essere chiamato maitre o direttore) e vorrei invitare i giovani a sognare di diventarlo. Mi interessa restituire dignità a un mestiere straordinario che gli italiani sono in grado di fare in maniera straordinaria: i migliori uomini di sala e cantina sono italiani, ma sono dovuti andare all’estero perché qui non hanno trovato spazio per crescere ed essere gratificati».
Tornando alla questione principale: come si riporta l’attenzione sui mestieri di sala?
«Facendola sognare ai ragazzi spiegando loro quanto è importante. Occorre riempire i dibattiti di contenuti e non di polemiche, occorre costruire delle palestre in cui i giovani possano completare il loro percorso e tornare a riempire le classi degli istituti alberghieri. Poi magari col tempo cambierà anche la scuola e i suoi programmi. Siamo noi stessi a dover fare arrivare i messaggi giusti. Un esempio: in genere le brigate di sala sono organizzate in maniera verticale, così il ragazzino appena arrivato deve stare zitto e prendere le bottiglie. In Francescana abbiamo passato gli ultimi otto anni a smontare questo assunto mettendo in grado anche l’ultimo arrivato di essere subito operativo. Questo è importante sia per chi viene inserito sia per i clienti perché si crea un clima piacevole e leggero».
C’è altro?
«Sì, sapere che in un ristorante non c’è un solo cliente, ma tanti clienti con esigenze diverse e per questo bisogna avere una grande apertura mentale: i cinesi non salutano né quando entrano né quando vanno via perché fa parte del loro costume non perché sono maleducati; gli americani enfatizzano qualsiasi portata e così via dicendo. Infine la sala è anche il punto cardine per il futuro dell’agroalimentare italiano. Sono i camerieri a esaltare i piatti e i loro ingredienti».
Mariella Caruso