Produttori, cuochi e istituzioni si alleano per la valorizzazione del riso italiano
Con 900mila tonnellate di riso coltivate da 3850 agricoltori che nel 2018 hanno piantato 160 varietà, 90 riserie e 65 pilerie, l’Italia è il primo produttore di riso nell’Unione Europea di cui copre il 52% di tutta la produzione. Numeri che non si conoscono abbastanza ma che fanno del riso uno dei prodotti principali della nostra agricoltura e, non a caso, l’ingrediente principe del risotto, uno dei piatti italiani più conosciuti al mondo, e anche di altre preparazioni che caratterizzano la gastronomia tricolore, dal supplì al sartù fino alla tiella.
Del riso, però, «c’è bisogno di una maggiore conoscenza anche da parte dei professionisti dei fornelli», ha spiegato la presidente dell’Associazione italiana degli Ambasciatori del Gusto Cristina Bowerman durante i lavori de Il riso italiano di qualità. La tavola rotonda, Identità e Futuro, in cui è stata registrata la presenza straordinaria di tutto il comparto, è culminata con la firma da parte dell’Associazione di un protocollo d’intesa con l’Ente Nazionale Risi per la valorizzazione del riso italiano. Un accordo che rappresenta concretamente gli scopi dell’Associazione, che dal giugno 2016 si propone di rafforzare e valorizzare la cultura agroalimentare ed enogastronomica italiana in uno spirito di collegialità e con una mentalità inclusiva.
La firma in calce al documento che si propone di promuovere la conoscenza di una materia prima pregiata come il riso italiano, di approfondire i temi relativi alla trasformazione del prodotto, agli strumenti tecnologicamente innovativi e alla preparazione delle ricette che contraddistinguono la cultura italiana del riso attraverso iniziative di divulgazione e comunicazione in collaborazione con l’Ente Nazionale Risi, per l’Associazione Ambasciatori del Gusto è una doppia vittoria.
Come per il precedente Manifesto del Riso firmato dalle più importanti associazioni di categoria come Associazione Professionale Cuochi Italiani (Apci), Charming Chic Chef (Chic), Federazione Italiana Cuochi (Fic), Jeunes Restaurateurs Italia (Jre) e Le Soste, anche in questo caso l’Associazione è riuscita a far convergere gli interessi di tutti – associazioni, cuochi e produttori – in nome del riso italiano che hanno partecipato alla tavola rotonda.
«La collaborazione», ha detto la presidente Cristina Bowerman, «nasce dalla consapevolezza della funzione che i professionisti del nostro settore rivestono in tema di valorizzazione in campo enogastronomico». «Seminando crescono anche le idee non solo il riso», ha aggiunto il vice presidente Paolo Marchi al quale ha fatto eco il responsabile tecnico-scientifico Adg, Gianluca De Cristofaro. «Speriamo – ha chiosato – che anche stavolta ci sia l’apporto di tutte le altre associazioni che hanno aderito sia al Manifesto del riso, sia all’appello contro l’etichetta a semaforo».
A raccogliere subito l’invito è stato il presidente di Jeunes Restaurateurs Italia, Luca Marchini. «Quello che si è intrapreso è un percorso che vede le associazioni di ristoratori unite nella valorizzazione del lavoro portato avanti dai tanti e appassionati produttori, ma anche nella tutela della cucina italiana intesa nella sua unicità di patrimonio enogastronomico – afferma lo chef de L’Erba del re di Modena -. Questo accordo con l’Ente Risi rappresenta un importante passo proprio in questa direzione, una strada che anche noi come JRE abbiamo deciso di condividere, proprio in virtù della sua rilevanza a livello non solo culinario, ma anche e soprattutto culturale».
Mariella Caruso
Parte il progetto Formare i Formatori
Un format ideato dagli Ambasciatori del Gusto e rivolto ai docenti degli Istituti Alberghieri provenienti dalle diverse regioni, con lo scopo di creare una piattaforma di dialogo permanente. L’attività ha come obiettivo principale la condivisione di esperienze per offrire conoscenze scientifiche, tecniche e imprenditoriali, utili all’evoluzione e al perfezionamento della formazione.
Tra i protagonisti ad inaugurare il progetto Nikita Sergeev, del ristorante L’Arcade di Porto San Giorgio, con una sessione sulle tecniche di cottura e preparazioni innovative e sul necessario rapporto tra sala e cucina.
“La grande intuizione degli Ambasciatori del Gusto è aver creduto per primi in un progetto molto ambizioso, che punta a collaborare non solo con i ragazzi di tutti gli alberghieri d’Italia, ma che vuole coinvolgere anche i docenti di cucina e sala. – racconta Nikita Sergeev – L’obiettivo comune è quello di attivare una collaborazione per l’ampliamento dell’offerta formativa, condividendo le reciproche conoscenze, competenze e informazioni, su una capillare rete di istituti alberghieri in Italia.”
Mariella Organi, dal 1991 alla guida del ristorante La Madonnina del Pescatore a Senigallia con il marito Moreno Cedroni, ha invece focalizzato la sessione pomeridiana sull’importanza dell’accoglienza, la gestione della sala ed il servizio, delle prenotazioni e dell’attenzione al cliente e delle sue necessità
“L’attività fin qui messa in campo dall’Associazione grazie al così detto metodo AdG, proposto e largamente condiviso da noi associati, ci vede impegnati in tantissime attività di formazione per le nuove generazioni. – racconta Mariella Organi – Con queste iniziative siamo certi di dare un contributo concreto nel rafforzare e valorizzare la cultura enogastronomica del nostro Paese.”
L’Associazione intende supportare concretamente il sistema scolastico nazionale e in particolare Re.Na.I.A., nell’ottica della più ampia sinergia, per rafforzare la cultura e la consapevolezza delle potenzialità del settore e del patrimonio agroalimentare italiano. Lavoro di squadra, ricerca continua e formazione personalizzata per studenti e docenti rappresentano i concetti chiave sui cui si fonda il lavoro dei prossimi mesi.
Attenti a non scivolare sull’olio
C’era una volta l’olio extra vergine di oliva italiano. E c’è ancora, ma purtroppo quest’anno non ce ne sarà abbastanza per soddisfare le esigenze del mercato interno ed esterno. A certificare l’evidenza, già palese a chi della produzione di olive e di olio extra vergine fa il proprio mestiere, è stata l’Ismea. Secondo le elaborazioni di gennaio 2019 dell’Istituto di Servizi per il Mercato Agricolo Alimentare la produzione 2018 di olio di oliva in Italia si attesterà intorno alle 185 mila tonnellate, ovvero il 57% in meno rispetto al 2017. Il calo non è uniforme. Se la produzione in regioni come la Liguria non ha subito cali, anzi è stata molto soddisfacente come rilevato dai produttori del Consorzio Olio Dop Riviera Ligure, ad accusare le maggiori perdite sono state le Regioni del Mezzogiorno, «con la Puglia, che da sola rappresenta circa la metà della produzione nazionale – sottolinea Ismea – colpita da una flessione stimabile attorno al 65%, a causa delle gelate e dei problemi fitosanitari (leggasi Xylella, ndr) che hanno colpito gli uliveti». Il calo della produzione, al di là delle fisiologiche campagne di scarica degli uliveti, è conseguenza diretta dei molti eventi meteorologici con i quali tutti stiamo facendo i conti, ma che in agricoltura hanno ripercussioni devastanti. La Coldiretti stima che nel 2018, a causa del maltempo, siano state almeno 25 milioni le piante di ulivo danneggiate dalla Puglia all’Umbria, dall’Abruzzo sino al Lazio con danni fino al 60% in alcune zone particolarmente vocate. Tutto questo in un Paese che coltiva oltre 500 cultivar lungo quasi tutto lo Stivale e coinvolge 400 mila aziende agricole specializzate.
Il grido d’allarme che riguarda la produzione 2018 fa il paio con quello che riguarda la provenienza dell’olio Evo il cui consumo mondiale, come ricorda Coldiretti, è aumentato del 49% negli ultimi 25 anni anche con la maggiore conoscenza della dieta mediterranea. Nei fatti la produzione interna di olio d’oliva (nelle annate buone tra le 300mila e le 350mila tonnellate) non riesce a soddisfare il fabbisogno di consumo del nostro Paese che si attesta tra le 500 e 600mila tonnellate. Inoltre aumentano anche le esportazioni di olio Evo italiano che sommano tra le 300 e le 400mila tonnellate. L’impossibilità di far quadrare i conti apre le porte a un’altra questione legata alla reale italianità dell’olio che c’è all’interno delle bottiglie. A rispondere al quesito ci sono le importazioni. Solo nel primo quadrimestre 2018 quelle dell’olio tunisino sono state pari a 26,6 milioni di chili facendo segnare un + 260% rispetto allo stesso periodo dell’anno precedente. L’olio che arriva in Italia, però, non è importato solo dalla Tunisia, ma anche dalla Spagna (primo produttore mondiale), dalla Grecia e da altri gli altri Paesi del Mediterraneo. Tutto quest’olio d’oliva viene imbottigliato dalle aziende raffinatrici e confezionatrici italiane la cui arte di creare blend interessanti è riconosciuta internazionalmente.
L’etichetta. Per sapere che olio c’è nelle bottiglie, come ricorda l’Assitol che riunisce le aziende confezionatrici, è bene leggere l’etichetta che, come daregolamento UE n.29 del 2012, deve indicare esplicitamente l’origine dell’olio e le sue caratteristiche. Le diciture possono essere 100% italiano per olio Evo di esclusiva provenienza nazionale oppure Miscela di oli di oliva originari dell’Unione Europea nel caso in cui gli oli del blend siano stati prodotti nell’Ue; Miscela di oli di oliva non originari dell’Unione Europea o Miscela di oli non dell’Unione Europeaper gli oli prodotti fuori dall’Ue; Miscela di oli di oliva originari dell’Unione Europea e non originari dell’Unione europea se gli oli sono misti. Anche la denominazione di origine protetta (Dop) o l’indicazione geografica protetta (Igt) possono essere indicate se l’olio ricade in questo ambito.
Sono vietate, invece, definizioni e riferimenti non contemplati dalla normativa.
Detto questo, al di là delle frodi di cui purtroppo si sente spesso parlare, la lettura e la comprensione dell’etichetta è demandata a ogni singolo ristoratore o consumatore che potrà decidere se leggerla o meno.
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Mariella Caruso
Una DOP tira l'altra. Alla scoperta dell'agroalimentare certificato in Italia
Si fa presto a dire DOP, IGP o STG, ovvero i tre acronimi utilizzati per identificare i prodotti a Denominazione di Origine Protetta, quelli a Indicazione Geografica Controllata e le Specialità Tradizionali Garantite. È molto più complicato, invece, capire a fondo le differenze tra i tre tipi di riconoscimenti adottati dall’Unione Europea per salvaguardare quei prodotti che rappresentano l’eccellenza della produzione agroalimentare europea.
DOP, IGP ed STG. A delineare i confini di ciò che si intende con Dop e Igp è l’articolo 5 del Regolamento dell’Unione Europea 1151 del 21 novembre 2012 sui regimi di qualità dei prodotti agricoli e alimentari.
Con il marchio denominazione di origine s’identifica un prodotto che è originario di un luogo, regione o, in casi eccezionali, di un paese determinato la cui qualità o le cui caratteristiche sono dovute essenzialmente o esclusivamente ad un particolare ambiente geografico ed ai suoi intrinseci fattori naturali e umani e le cui fasi di produzione si svolgono nella zona geografica delimitata.
Con il marchio indicazione geografica, invece, s’identifica un prodotto originario di un determinato luogo, regione o paese alla cui origine geografica sono essenzialmente attribuibili una data qualità, la reputazione o altre caratteristiche e la cui produzione si svolge per almeno una delle sue fasi nella zona geografica delimitata.
Per le Specialità Tradizionali Garantite intervengono gli articoli 17 e 18 dello stesso Regolamento che ha come scopo la salvaguardia di metodi di produzione e ricette tradizionali, aiutando i produttori di prodotti tradizionali a commercializzare i propri prodotti e a comunicare ai consumatori le proprietà che conferiscono alle loro ricette e ai loro prodotti tradizionali valore aggiunto. Affinché un prodotto o alimento sia ammesso a beneficiare della registrazione come specialità tradizionale garantita deve essere ottenuto con un metodo di produzione, trasformazione o una composizione che corrispondono a una pratica tradizionale per tale prodotto o alimento, o ottenuto da materie prime o ingredienti utilizzati tradizionalmente. Inoltre per la registrazione il nome deve essere stato utilizzato tradizionalmente in riferimento al prodotto specifico o designare il carattere tradizionale o la specificità del prodotto.
DISCIPLINARE DI PRODUZIONE. Per poter essere riconosciuti come Dop o Igp i prodotti devono essere conformi a un disciplinare di produzione che è parte integrante della procedura dell’Ue per il rilascio del marchio. Il Disciplinare, come da art. 7 del Regolamento, identifica precisamente il nome da proteggere, la descrizione del prodotto e le eventuali materie prime utilizzate, la definizione della zona geografica, la descrizione del metodo di ottenimento del prodotto, gli elementi che stabiliscono il legame tra caratteristiche del prodotto e l’ambiente geografico oltre al nome dell’autorità e organismi di certificazione. A occuparsi dei controlli sono organismi indicati dal comitato promotore delle Dop /Igp (in genere Consorzi di Tutela incaricati ai sensi dell’articolo14 della legge 526/1999) autorizzati dal Ministero delle politiche agricole alimentari e forestali.
L’Italia è il Paese di Dop e Igp. In Europa ci sono attualmente 1422 prodotti alimentari a marchio Dop, Igp e Stg riconosciuti. Con i suoi 299 prodotti riconosciuti dall’Unione Europea, l’Italia è lo Stato con il maggior numero di prodotti tutelati, seguita dalla Francia che ne ha iscritti a tutela 250. Tra i prodotti italiani, secondo l’ultimo aggiornamento del 26 marzo 2019, 166 sono a marchio Dop, 125 a marchio Igp e 2 Stg. Si va dalle più che rinomate e Dop della prima ora come Fontina, Grana Padano, Parmigiano Reggiano, Prosciutto di Parma, Prosciutto di San Daniele fino alle ultime registrate come la DOP dell’olio extravergine Canino di Viterbo, le IGP del Cioccolato di Modica, della Lucanica di Picerno, del Marrone di Serino e della Pitina di Pordenone.
Perché utilizzare i prodotti a marchio DOP e IGP? Basterebbe la qualità certificata dagli enti preposti a far pendere la bilancia a favore dell’utilizzo dei prodotti DOP e IGP, italiani o europei che siano. Ma considerando soltanto quelli prodotti nel nostro Paese, il loro impiego nelle cucine dei professionisti rappresenta un sostegno alla filiera agroalimentare e, nello stesso tempo, un modo per farli conoscere al grande pubblico che spesso ne ignora il valore. Se, infatti, non c’è molto da spiegare quando si parla di alcune DOP, non è lo stesso se si allarga la visione al corposo elenco di prodotti agroalimentari tutelati dai marchi europei. E chi meglio di un professionista può diventare ambasciatore della qualità italiana comunicandone il valore?
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Mariella Caruso