Napoli e la Sicilia le mete più golose per gli italiani
Negli ultimi tre anni novantotto turisti italiani su cento hanno vissuto almeno un’esperienza enogastronomica nel corso di un viaggio e ottantasei di questi hanno partecipato a cinque o più esperienze. Basterebbe questo dato per comprendere l’importanza del turismo enogastronomico nel nostro Paese che, sempre nell’ultimo triennio, è cresciuto del 48% facendo registrare il 45% di partenze (con un importante 46% tra i Millennials) con l’esclusiva finalità enogastronomica.
Il dato è contenuto, insieme a molti altri, nelle 433 pagine del Rapporto sul turismo enogastronomico italiano 2019 che è stato realizzato con la supervisione scientifica della World Food Travel Association (Wfta) e dell’Università degli Studi di Bergamo e il patrocinio del Mipaaft, Enit, Federculture, Ismea, Fondazione Qualivita e Touring Club Italiano. «Al di là della prima motivazione del viaggio, il tema enogastronomico è diventato fisso per la quasi totalità degli italiani», ha sottolineato Roberta Garibaldi che ha firmato il Rapporto che focalizza molti dati che possono aiutare gli operatori turistici, gli attori del settore enogastronomico, agricolo e alimentare e, non ultimo, il sistema Paese a (ri)pensare e organizzare il proprio sistema di accoglienza turistica. Un altro dato da non sottovalutare è l’allargamento della platea dei viaggiatori: se il 50% ha un reddito di oltre 50.000 euro annui, il 46% ha un reddito che non supera i 28.000 euro annui.
LE ESPERIENZE. Tra le esperienze enogastronomiche più amate c’è la ristorazione tipica (88%), al secondo posto la visita ai mercati (82% con il 58% di acquisti di prodotti tipici effettuati), al terzo quella a ristoranti e/o bar storici (72%), comprare cibo da un food truck (70%) e partecipare a un evento legato al cibo (67). A queste esperienze se ne affiancano altre a partire dalla visita alle aziende agricole che con il 62% hanno più appeal delle cantine (56%) nonostante queste ultime siano già più pronte a garantire visite guidate. Seguono caseifici, frantoi, birrifici, salumifici e, per concludere, pastifici, fabbriche di cioccolato e distillerie. Negli ultimi tre casi, però, il gap tra il desiderio e la realtà è ancora molto alto perché sono ancora poche le realtà produttive che prevedono la possibilità di un percorso ad hoc. Allo stesso modo è ancora molto alto il gap tra chi ha partecipato a un percorso di più giorni a tema enogastronomico appositamente organizzato (15%) rispetto al desiderio di farlo (52%).

LE PIU’ RICHIESTE. Al primo posto nei desiderata degli italiani c’è un viaggio a tema enogastronomico in Sicilia (15%), seguita da Toscana (14%), Emilia Romagna, Puglia, Campania e Lazio mentre nella classifica delle città Napoli (11%) batte Roma (10,1). Le due città precedono Firenze, Bologna, Palermo e Bari. Tra gli altri interessi manifestati dai partecipanti al panel c’è una maggiore valorizzazione del nostro patrimonio enogastronomico che offre 825 prodotti agroalimentari e vitivinicoli a Indicazione geografica, 5.056 prodotti agroalimentari tradizionali, 4 beni enogastronomici inseriti nella lista del patrimonio tangibile e intangibile dell’Unesco, 2 città creative Unesco dell’enogastronomia, 334.743 imprese di ristorazione, 875 ristoranti di eccellenza, 23.406 agriturismi che offrono servizi di alloggio, ristorazione e altre proposte turistiche, 114 musei legati al gusto, 173 Strade del vino e dei sapori. Tra le richieste evidenziate dai turisti c’è una prima colazione con i prodotti del territorio e la conoscenza della cultura e delle tradizioni enogastronomiche locali e l’inserimento nei menu dei produttori delle specialità locali e il racconto della storia delle stesse.
Mariella Caruso
Guai se la pasticceria scorda l’artigianalità
In questi giorni il Sigep è stato il punto d’incontro per il mondo della pasticceria e della gelateria. E non solo. A curiosare tra gli stand della Fiera di Rimini sono passati molti chef che, al di là delle aree dedicate al caffè e alla panificazione, hanno curiosato con interesse anche in quelle più strettamente dolci perché le contaminazioni tra e le sperimentazioni che puntano all’abbattimento degli steccati tra i sapori sono sempre più patrimonio della cucina.

Il mondo della pasticceria, poi, è in costante crescita e la pasticceria italiana ormai, come confermano molti addetti ai lavori, ha poco da invidiare ai cugini francesi. Tutto merito di grandi pasticcieri come Iginio Massari. Il fondatore dell’Ampi (Accademia Maestri Pasticceri Italiani) parlando proprio dal Sigep ha rivendicato l’attesa di «un riconoscimento da parte dello Stato italiano di elevare le eccellenze che determinano e rappresentano un lavoro importante anche all’estero».
C’è, però, anche qualche riflessione da fare su un mondo, quello della pasticceria e della gelateria che, come Sigep dimostra, fa sempre più uso della tecnologia e di preparati che promettono miracoli con poca fatica. Ben vengano la ricerca degli ingredienti di qualità e l’innovazione tecnologica che permetta di arrivare a concepire prodotti sempre migliori dal punto di vista organolettico e gustativo, ma non bisogna abdicare alla conoscenza e alla tecnica individuale, all’artigianalità che fa la differenza tra una torta, una monoporzione, un gelato, un semifreddo, un biscotto o un dessert al piatto e un altro.

A ricordarlo è l’Ambasciatore del Gusto Gianluca Fusto, formatore e consulente in 38 Paesi diversi, che mette in guardia dagli eccessi e dai pericoli della cosiddetta pasticceria moderna. «Oggi l’introito di una pasticceria è molto appetibile perché il mercato è molto più importante, più vasto e più a portata di tutti rispetto a quello di un ristorante», è la riflessione di Fusto. Questo ha fatto sì, spiega il pasticciere milanese, che «tante persone prive dalla piena padronanza della materia e della piena conoscenza degli ingredienti sono entrati in questo mercato». «La pasticceria – sottolinea l’Ambasciatore del Gusto – è fatta di un utilizzo dell’ingrediente che ha bisogno di conoscenze chimico-fisiche che tanti in tanti non hanno». Non può, inoltre, «esattamente come la cucina, prescindere dalla stagionalità», continua Fusto che si dice «orgogliosamente formato alla grande scuola di Aimo (Moroni, ndr)». La realtà odierna, invece, si rammarica «è la progressiva perdita di identità del dolce. C’è chi insegue la bellezza e la perfezione dimenticando l’ingrediente e la tecnica artigianale». Non è un caso che Gianluca Fusto dal 2007 finisca ogni sua creazione utilizzando la sac a poche, «perché gli stampi sono belli e aiutano le glassature, ma vuoi mettere una decorazione come si deve?».
Mariella Caruso
Paolo Griffa: «Purtroppo oggi ci sono troppi pochi maestri»
Non sono passati molti anni da quando Paolo Griffa sedeva tra i banchi dell’Istituto alberghiero Giolitti di Torino. Classe 91, lo chef del Grand Hotel Royal e Golf di Courmayeur che cura anche la cucina sia del Grand Royal sia del Petit Royal, è un grande fautore della formazione che, come sottolinea l’Ambasciatore del Gusto, «non finisce mai». Quella scolastica, però, se è formazione di qualità lascia il segno. «Devo molto ad Alessandro Ricci, un professore fantastico che mi ha fatto appassionare a questo lavoro facendomene vedere tutti gli aspetti, da quelli entusiasmanti a quelli negativi», ammette. «Mi ha mandato in stage in posti in cui ho imparato qualcosa – continua Griffa -. Mi ha fatto partecipare a molti concorsi mettendomi in sfida non con gli altri, ma con me stesso; mi ha fatto capire che è importante anche ciò che si apprende dai libri». Non è un caso che oggi la “biblioteca” privata di Paolo Griffa conti oltre 2000 libri, alcuni dei quali viaggiano sempre con lo chef. «Sono Tradizione in evoluzione. Arte e scienza in pasticceria di Leonardo Di Carlo, Larousse des desserts, Modernist Cuisine at home, tutta la serie dei libri di El Bulli ed Eleven Madison Park che – dice lo chef – continuo a sfogliare nonostante li conosca a memoria».

Quindi le persone che formano sono importanti tanto quanto la formazione in sé?
«Sicuramente. Informazione e cultura si possono trovare ovunque, ma se non c’è chi innesca la curiosità e la passione che alimenta la fiamma per il proprio lavoro studiare è inutile. Oggi esistono tanti formatori, ma pochi maestri che sono quelli che, oltre alle basi della cucina, t’insegnano il metodo per continuare a restare informato».
È stato importante per te conoscere sin da subito le difficoltà di questo lavoro?
«Molto, a partire dagli orari che, in occasione degli eventi, erano più che flessibili. E poi le gerarchie e i ruoli da rispettare che rappresentano un problema per le giovani generazioni».
È una questione culturale?
«Oggi il rispetto dei ruoli non è considerato fondamentale, e non parlo soltanto di gerarchie in cucina. Ci sono bambini che già non rispettano i genitori, andando avanti non rispetteranno prima gli insegnanti e poi i datori di lavoro».

Non esiste anche un problema di comunicazione della professione?
«C’è una distorsione perché il nostro è un mestiere facilmente stereotipabile. Si tende a non voler sapere che dietro alla celebrità del cuoco c’è fatica, che si cucina tutti i giorni. Da un certo punto di vista noi chef abbiamo approfittato di questa distorsione perché, per esempio la televisione porta notorietà e rende economicamente. Però bisogna analizzare il fenomeno e discernere bene i messaggi. Io ho fatto due stagioni di “Detto fatto” su Raidue e ho imparato che bisogna stare attenti a cosa si dice. A me, per esempio, fanno impressione i ragazzini di Junior Masterchef che a 10 anni usano un linguaggio incredibile che nemmeno dopo 5 anni di scuola superiore».
Tu hai partecipato al convegno “Prima la formazione” degli Ambasciatori del Gusto. Secondo il tuo punto di vista su cosa dovrebbe puntare la formazione scolastica?
«Rigidità, rispetto dei ruoli e scrematura di chi non ha passione per questo lavoro. Non bisogna rimanere tra i banchi solo per ottenere un diploma e poi cambiare lavoro. Anche i programmi vanno aggiornati, ci si dovrebbe concentrare bene sulle basi perché molto altro s’impara lavorando. Invece ci si trova davanti a stagisti che non sanno tenere in ordine il proprio banco di lavoro o non riconoscono un’erba che sta per marcire da una che ha bisogno soltanto di essere ravvivata».
Qual è la cosa principale che chiedi a uno stagista quando arriva da te?
«Di tenere in ordine il tavolo da lavoro ed entrare a far parte di un gruppo. I quattro punti cardine sono: rispetto dei ruoli, pulizia, ordine e conoscenza».
Mariella Caruso
Oliver Glowig stregato dalla semplicità degli ingredienti e dai sapori italiani
Quando vent’anni fa, appena 25enne, l’Ambasciatore del Gusto Oliver Glowig arrivò in Italia aveva fissato in un anno la sua permanenza nel nostro Paese. A spingerlo la curiosità di conoscere la cucina dello Stivale che, nelle sue intenzioni, avrebbe fatto da ponte tra la sua formazione su base francese e il suo approdo Oltralpe. Le cose, però, sono andate diversamente da come Glowig aveva, da buon tedesco, pianificato. Accolto da Gualtiero Marchesi al Quisisana di Capri e poi a Erbusco, infatti, lo chef teutonico si è innamorato della cucina italiana a tal punto da eleggerla come l’unica capace di appagarlo nel lavoro. «Mi sono innamorato sin da subito delle materie prime e dei sapori italiani dimenticando senza alcun rimpianto il mio proposito di trasferirmi in Francia. Nel tempo, poi, ho preso atto dei limiti della cucina francese, della quale avevo appreso la tecnica durante la mia formazione in Germania, che utilizza sempre gli stessi ingredienti», racconta Glowig che, oggi, è uno dei portabandiera della cucina italiana nel mondo.

Come reagiscono all’estero quando si trovano davanti uno chef tedesco alfiere della cucina italiana?
«Allo stupore si sostituisce l’ascolto. Nelle cooking class che tengo all’estero, così come ai clienti dei ristoranti del Toca a Toronto e del Primavera 21 by Oliver Glowig presso il Ritz Carlton in Bahrain, racconto la mia storia e cerco di trasmettere la mia stessa passione per i piatti italiani, completi nella loro semplicità».
Qual è il piatto con il quale le piace rappresentare all’estero la cucina italiana?
«Il raviolo caprese con caciotta, maggiorana e una salsa di pomodorini freschi, basilico e un po’ di parmigiano: è un piatto che funziona in tutto il mondo, è il più richiesto a Toronto e Bahrein, ed è identitario. In questo caso a fare la differenza è proprio la semplicità contrapposta alla consuetudine di alcuni chef di strafare appesantendo la cucina italiana».
Oggi questa semplicità che contraddistingue da sempre la sua cucina sta diventando un trend.
«Sì e no. Io, però, continuo nella mia convinzione. A La tavola, il vino, la dispensa del Mercato Centrale di Roma propongo, ad esempio, un piatto semplicissimo come lo spaghetto aglio, olio e peperoncino (uso l’espelette che mi piace molto e non è troppo piccante) con nocciole e un po’ di limone trattato. Mettere in carta un piatto del genere è anche una sfida perché non lo fa più nessuno in quanto considerato banale. Per me, invece, non lo è affatto».

Cos’è rimasto nella sua cucina dell’imprinting tedesco?
«Assolutamente nulla. Ormai, pur avendo ancora il passaporto della Germania, sono più italiano che tedesco e, proprio per questo, quando vado all’estero cerco di stare molto attento anche ai minimi dettagli. Non c’è nulla che mi manchi della cucina tedesca e per stare in pace con me stesso mi basta un piatto all’anno: con l’anatra, cavolo rosso e canederli mangiata a Vienna a Natale sto a posto per tutto il 2019. Al contrario quando rientro in Italia dai miei viaggi, nei quali cerco sempre di assaggiare la cucina locale, non posso fare a meno di un piatto di spaghetti al pomodoro».
I suoi progetti italiani comprendono la cucina più «popolare» de “La tavola, il vino, la dispensa” e quella fine dining del “Barrique” ai Castelli Romani. Come si articolano fra di loro?
«Pur essendo due progetti diversi io li considero complementari. Al Mercato Centrale mi confronto con una clientela romana che si avvicina alla cucina popolare in chiave gourmet che posso proporre a prezzi contenuti. S’innesca così la curiosità che, poi, porta alcuni di loro fino al Barrique».
L’esposizione mediatica della cucina ha aiutato questo processo di curiosità?
«Sì, la clientela è molto più informata, a volte anche esageratamente tanto di sentirsi al pari di un professionista… Detto questo per me esiste un altro grande problema innescato dalla televisione che riguarda i giovani, la professione e la proliferazione delle scuole private dove i ragazzi pensano di imparare il mestiere in tre mesi, fanno uno stage per poi accorgersi, dopo aver speso molto, che stare in cucina è un lavoro molto duro».
Mariella Caruso