È l’ingrediente essenziale del risotto, piatto principe della cucina italiana, ma non per questo se ne sa abbastanza. «Del riso c’è bisogno di una maggiore conoscenza anche da parte dei professionisti dei fornelli», ha, infatti, ribadito Cristina Bowerman, presidente dell’Associazione Italiana degli Ambasciatori del Gusto nel giorno della firma del protocollo d’intesa con l’Ente Nazionale Risi per la valorizzazione del riso italiano.
L’invito è stato subito raccolto dal numero uno dell’Ente pubblico che si occupa della tutela del settore risicolo Paolo Carrà. All’opera con AdG per i workshop da calendarizzare «per conoscere meglio il riso a partire dalla produzione, perché più si conosce la materia, più è possibile utilizzarla con cognizione di causa», il presidente Carrà, risicoltore a Vercelli, sfata alcuni miti sulla graminacea d’origine asiatica. «Tanto per cominciare – attacca – il riso non è una pianta acquatica, ma una pianta che tollera i ristagni d’acqua utilizzati per evitare gli sbalzi termici che, nel periodo della fioritura, provocano l’interruzione della fecondazione e quindi la formazione del chicco».
DA COMMODITY A MATERIA PRIMA. Il riso, considerato una commodity in molti Paesi del mondo in cui risulta un accompagnamento dei piatti, in Europa ha una connotazione completamente diversa. «Culturalmente il riso è arrivato con gli arabi che ne introdussero l’uso in Sicilia – continua -. Inizialmente utilizzato come spezia ed elemento medicale per i problemi intestinali, viene fatto conoscere al Nord da Ludovico il Moro nell’area lombarda e dai monaci cistercensi per quella piemontese. È in queste due regioni che cambia la sua destinazione diventando materia prima per la preparazione di altri piatti».
IL RISO OGGI. Colazione, piatti pronti e cucina etnica. «Nel tempo anche in Italia l’utilizzo del riso sta seguendo nuove strade alimentate da mode gastronomiche come quella del sushi che hanno dato maggiore slancio alla sua produzione. A tutto questo – dice Carrà – si aggiungano gli utilizzi del riso come sottoprodotto per la produzione di farine e bevande».
LE SOTTOSPECIE DEL RISO. Il riso non è tutto uguale. Esistono delle grandi famiglie entro le quali è classificato. «C’è la sottospecie japonica alla quale appartengono le varietà coltivate a chicco tondo per le minestre e a chicco lungo destinato alla parboilizzazione, ai risotti e ai contorni», spiega. «L’altra sottospecie è la indica di cui fanno parte i risi a grana lunga, cristallini, che rilasciano poco amido e sono utilizzati per i contorni di cui l’Ue è deficitaria». Una nota a parte la meritano i risi colorati che, chiarisce Carrà, «sono risi semintegrali pigmentati di produzione italiana ricchi di antociani e flavonoidi che sono stati riconosciuti come antiossidanti utili per la salute». Infine ci sono i risi aromatici, quelli tipo Basmati (varietà che può essere coltivata soltanto in India e Pakistan), che rilasciano un particolare aroma e sono coltivati in Italia.
PRODUZIONE. L’Italia, con il suo 52% del totale, è il principale produttore di riso nell’Unione Europea, «ma il nostro è principalmente un mercato di esportazione al quale destiniamo il 60% del riso coltivato. Importiamo soltanto basmati e risi per la parboilizzazione, ma non risi tondi». Il motivo della centralità del riso italiano nel panorama europeo è da ricercarsi nella nostra posizione geografica. «Il territorio italiano è unico perché siamo al limite del 45° parallelo oltre il quale il riso non può essere coltivato. Quella settentrionale, quindi, è l’area limite e la risicoltura vi si è sviluppata grazie alla fitta rete irrigua. Ma – sottolinea ancora – l’acqua della camera di risaia non viene sprecata perché la conformità del terreno impermeabile fa sì che venga riutilizzata passando da camera a camera fino ad arrivare ai fiumi. In caso contrario non riusciremmo a coltivare 217mila ettari dislocate per il 92% tra Lombardia e Piemonte. Il restante 8% è suddiviso tra Veneto, Emilia, Sardegna e due piccole aree, una in Toscana e una in Calabria. Esiste anche un’area di coltivazione amatoriale in Sicilia».
IL RISO CLASSICO. Cosa significa l’aggettivo classico quando si parla di riso? «Secondo la nuova legge del mercato interno del riso (Decreto legislativo, 04/08/2017 n° 131, G.U. 07/09/2017) al quale deve rifarsi tutto il riso che viene trasformato e commercializzato in Italia, la definizione di classico sulla scatola indica che si tratta di un’unica varietà (Carnaroli, Arborio, Roma, Vialone nano, Ribe e Sant’Andrea) prodotta in Italia da risicoltori aderenti al sistema di tracciabilità varietale». Detto questo non si può dire che una «varietà di riso sia più pregiata di un’altra – chiarisce Carrà -. Tutto dipende dall’utilizzo che se ne fa: il Carnaroli, per esempio, è adatto al risotto perché tiene bene la cottura, mentre l’Arborio e il Vialone nano a cottura ultimata non ama rimanere troppo a lungo in pentola».
Mariella Caruso