Quando vent’anni fa, appena 25enne, l’Ambasciatore del Gusto Oliver Glowig arrivò in Italia aveva fissato in un anno la sua permanenza nel nostro Paese. A spingerlo la curiosità di conoscere la cucina dello Stivale che, nelle sue intenzioni, avrebbe fatto da ponte tra la sua formazione su base francese e il suo approdo Oltralpe. Le cose, però, sono andate diversamente da come Glowig aveva, da buon tedesco, pianificato. Accolto da Gualtiero Marchesi al Quisisana di Capri e poi a Erbusco, infatti, lo chef teutonico si è innamorato della cucina italiana a tal punto da eleggerla come l’unica capace di appagarlo nel lavoro. «Mi sono innamorato sin da subito delle materie prime e dei sapori italiani dimenticando senza alcun rimpianto il mio proposito di trasferirmi in Francia. Nel tempo, poi, ho preso atto dei limiti della cucina francese, della quale avevo appreso la tecnica durante la mia formazione in Germania, che utilizza sempre gli stessi ingredienti», racconta Glowig che, oggi, è uno dei portabandiera della cucina italiana nel mondo.

Come reagiscono all’estero quando si trovano davanti uno chef tedesco alfiere della cucina italiana?

«Allo stupore si sostituisce l’ascolto. Nelle cooking class che tengo all’estero, così come ai clienti dei ristoranti del Toca a Toronto e del Primavera 21 by Oliver Glowig presso il Ritz Carlton in Bahrain, racconto la mia storia e cerco di trasmettere la mia stessa passione per i piatti italiani, completi nella loro semplicità».

Qual è il piatto con il quale le piace rappresentare all’estero la cucina italiana?

«Il raviolo caprese con caciotta, maggiorana e una salsa di pomodorini freschi, basilico e un po’ di parmigiano: è un piatto che funziona in tutto il mondo, è il più richiesto a Toronto e Bahrein, ed è identitario. In questo caso a fare la differenza è proprio la semplicità contrapposta alla consuetudine di alcuni chef di strafare appesantendo la cucina italiana».

Oggi questa semplicità che contraddistingue da sempre la sua cucina sta diventando un trend.

«Sì e no. Io, però, continuo nella mia convinzione. A La tavola, il vino, la dispensa del Mercato Centrale di Roma propongo, ad esempio, un piatto semplicissimo come lo spaghetto aglio, olio e peperoncino (uso l’espelette che mi piace molto e non è troppo piccante) con nocciole e un po’ di limone trattato. Mettere in carta un piatto del genere è anche una sfida perché non lo fa più nessuno in quanto considerato banale. Per me, invece, non lo è affatto».

Cos’è rimasto nella sua cucina dell’imprinting tedesco?

«Assolutamente nulla. Ormai, pur avendo ancora il passaporto della Germania, sono più italiano che tedesco e, proprio per questo, quando vado all’estero cerco di stare molto attento anche ai minimi dettagli. Non c’è nulla che mi manchi della cucina tedesca e per stare in pace con me stesso mi basta un piatto all’anno: con l’anatra, cavolo rosso e canederli mangiata a Vienna a Natale sto a posto per tutto il 2019. Al contrario quando rientro in Italia dai miei viaggi, nei quali cerco sempre di assaggiare la cucina locale, non posso fare a meno di un piatto di spaghetti al pomodoro».

I suoi progetti italiani comprendono la cucina più «popolare» de “La tavola, il vino, la dispensa” e quella fine dining del “Barrique” ai Castelli Romani. Come si articolano fra di loro?

«Pur essendo due progetti diversi io li considero complementari. Al Mercato Centrale mi confronto con una clientela romana che si avvicina alla cucina popolare in chiave gourmet che posso proporre a prezzi contenuti. S’innesca così la curiosità che, poi, porta alcuni di loro fino al Barrique».

L’esposizione mediatica della cucina ha aiutato questo processo di curiosità?

«Sì, la clientela è molto più informata, a volte anche esageratamente tanto di sentirsi al pari di un professionista… Detto questo per me esiste un altro grande problema innescato dalla televisione che riguarda i giovani, la professione e la proliferazione delle scuole private dove i ragazzi pensano di imparare il mestiere in tre mesi, fanno uno stage per poi accorgersi, dopo aver speso molto, che stare in cucina è un lavoro molto duro».

Mariella Caruso