Prevenire, garantire, tutelare e assicurare. Sono questi i cardini sui quali si muove la proposta di legge presentata dalla deputata Maria Laura Paxia, membro della X Commissione Permanente Attività produttive, commercio e turismo, in merito alla tutela dei prodotti nazionali e l’istituzione del marchio “100% Made in Italy”. Si tratta di una proposta di legge, la cui discussione è stata rinviata dopo l’esame in Commissione Giustizia, nella quale la sostanziale novità è l’inasprimento delle pene per i reati di contraffazione e di frode e l’introduzione di aggravanti (un terzo dell’aumento della pena) quando gli stessi reati vengono commessi utilizzando il web. Nella fattispecie a essere punita non sarebbe soltanto la messa in commercio dei prodotti contraffatti, ma anche la detenzione per la vendita. Da inasprire, sempre nelle intenzioni, anche le pene per chi la organizza «in modo sistematico, ovvero attraverso l’allestimento di mezzi e attività organizzate».

Tracciabilità ed etichettatura. Altra questione affrontata è quella che riguarda l’obbligo di tracciabilità e di etichettatura. In questo caso il metodo individuato sarebbe quello dell’inserimento del QR code, «al fine – si legge nell’art. 15 della proposta di legge – di consentire al consumatore e alle autorità competenti di conoscere, in modo chiaro e trasparente, il luogo di origine dei loro componenti o ingredienti, il luogo e le varie fasi di produzione e di lavorazione dei medesimi prodotti e l’intera filiera del loro percorso fino ai luoghi di vendita». Una maggior tutela è, inoltre, prevista per i lavoratori perché in ogni bene in vendita dovrebbe essere riportata la dicitura: «Questo bene è stato prodotto e lavorato senza ricorrere al lavoro minorile e nel pieno rispetto dei diritti umani e dei lavoratori». A garantire la tracciabilità e, di conseguenza, farsi carico della veridicità delle affermazioni sarebbe chi immette in commercio il bene in questione. I controlli, invece, come già avviene atterrebbero al Corpo della Guardia di finanza che potrà avvalersi della collaborazione dell’Agenzia delle Dogane e dei Monopoli, delle Camere di commercio, industria, artigianato e agricoltura e delle associazioni di categoria degli imprenditori.

Il marchio “100% Made in Italy”. Insieme ai controlli e all’inasprimento delle pene è prevista la creazione di un marchio “100% Made in Italy” del quale potrebbero fregiarsi soltanto i beni prodotti con materia prima italiana entro i confini nazionali. Di fatto una sorta di marchio di filiera che alcuni produttori del food, per esempio, hanno fatto proprio con altre denominazione e senza alcun “ombrello” legislativo per sottolineare l’autenticità italiana di alcuni prodotti destinati per lo più al mercato internazionale. È emblematico il caso della bresaola della Valtellina che pur essendo un prodotto Igp viene prodotta, senza alcuna violazione del disciplinare, prevalentemente con carni sudamericane; parallelamente alcuni produttori hanno firmato accordi per lo sviluppo di un progetto di filiera che incrementi lo sviluppo di bresaola con carne italiana.

Gli scogli. È una proposta di legge piena di buone intenzioni quella firmata dalla deputata del Movimento Cinque Stelle che, però, mette al centro le punizioni soffermandosi poco sui controlli. Non sempre le pene, come è risaputo, riescono a debellare fenomeni delinquenziali. Soprattutto quando come nel caso della contraffazione (ovvero quei prodotti realizzati per trarre in inganno) si tratta sovente di attività di vere e proprie industrie del crimine. Diverso, naturalmente, è il caso dell’italian sounding che riguarda prodotti non contraffatti, ma ugualmente ingannevoli in quanto realizzati con materie prime estere; questi prodotti evocativi di altri noti tipici della nostra creatività inducono in errore il consumatore che crede di comprare un prodotto italiano. Complicata sarebbe anche la questione di quello che dovrebbe essere il nuovo marchio “100% Made in Italy” perché rimangono gli ostacoli legati alla legislazione comunitaria che, nello specifico caso del food, potrebbe ravvisare la norma come un ostacolo allo sviluppo di altre imprese comunitarie.

A mancare, infine, salvo un generico articolo 17 sulla promozione di una «campagna di informazione sulla stampa periodica e quotidiana, sulla rete internet e sui mezzi radiotelevisivi al fine di diffondere la conoscenza delle disposizioni di cui alla presente legge, nonché di sensibilizzare l’opinione pubblica sul tema del contrasto della contraffazione dei prodotti nazionali», è tutto ciò che riguarda la vera sensibilizzazione dei cittadini che, purtroppo, sono quotidianamente messi alla prova da etichette che, in maniera del tutto legale, rimandano a prodotti solo apparentemente locali. In alcuni casi basterebbe leggere bene l’etichetta per accorgersi della provenienza delle materie prime; in altri casi, invece, è tutto legalmente più subdolo.

Mariella Caruso