Riforma degli istituti alberghieri, passione vera e consapevolezza di un mestiere fondamentale per il successo di un ristorante. Sono questi i nodi cruciali di un mestiere di cui non si parla mai abbastanza, quello della gestione della sala. «Il cliente è disposto a perdonare l’errore della cucina, ma non quello della sala». La riflessione è di Alessandro Pipero, 43 anni, Ambasciatore del Gusto, patron di Pipero, direttore di sala nato. O meglio diventato «per scelta – racconta – quando a 15 anni capii che della mia passione, mangiare, volevo farne un business». Romano (e romanista), precisa sfoderando quell’empatia che utilizza con i clienti perché, sottolinea, «è quella che vince sempre nel rapporto umano e non si puó insegnare». Ed è fondamentale, in particolar modo, nella sala di un ristorante, la cui gestione è tanto fondamentale quanto quella della cucina. «Però non chiedetemi percentuali su quanto valga la sala rispetto alla cucina in un ristorante – dice con fermezza -. Fare alta ristorazione è come gestire una squadra di calcio: si gioca sempre in undici e tutti sono fondamentali per far goal, tanto il lavapiatti quanto lo chef». Ciò non toglie che «anche per portare un piatto in tavola si deve usare la testa perché una sala perfetta va al di là delle stoviglie. Un cameriere non deve solo saper portare un piatto, é il ponte tra la cucina e il cliente». E se l’empatia deve essere innata, tutto il resto deve essere imparato. «Ma la formazione alberghiera va rifondata profondamente, serve più psicologia e, con tutto il rispetto, meno religione».

«Non c’è alcun dubbio che i programmi scolastici degli istituti alberghieri non sono all’avanguardia, ma da sempre sono convinto che l’approccio polemico non porti a nulla», afferma Beppe Palmieri, maitre (anche se, concettualmente, gradisce più essere chiamato cameriere) dell’Osteria Francescana di Modena. «Da sempre ho imparato a trasformare i vincoli in opportunità, quindi prendiamo quello che di buono arriva offre la scuola: la possibilità di avvicinare i giovani al mondo della ristorazione, sia in cucina sia in sala e quella di fare pratica. La sala – osserva – ha bisogno di “palestre” in cui allenarsi per cucirsi addosso gli strumenti di un mestiere diverso da quello della cucina: la tecnica di preparazione di un risotto è la stessa in uno stellato e in pizzeria, il servizio, pur avendo delle basi comuni, cambia a secondo del contesto».

Sono donne di sala le Ambasciatrici del Gusto Mariella Caputo e Mariella Organi. La prima a La Taverna del Capitano di Nerano, la seconda a La Madonnina del Pescatore di Senigallia.

«Penso che la sala concorra al 50% con la cucina nella gestione del ristorante perché tocca a chi sta in sala trasmettere al cliente la filosofia del piatto dello chef», afferma Mariella Caputo, 50 anni, erede della tradizione familiare di un ristorante che ha appena compiuto mezzo secolo. «Un buon operatore di sala deve conoscere ingredienti, cucina e pure le stoviglie, creare il rapporto tra il cliente e lo chef», spiega. «È una figura complessa che, però, col tempo si è un po’ persa», ammette con un pizzico di rammarico. «Oggi tutti sono disposti a investire nella cucina, meno sulla tavola. Ed è sbagliato perché solo apparentemente non c’è bisogno di particolari conoscenze per portare un piatto a tavola. Nella realtà un cameriere può distruggere un piatto ottimo o valorizzare un piatto mediocre», argomenta Mariella Caputo cui non è mai passato per la mente di cucinare. «A quello pensa egregiamente mio fratello, io ho cominciato come sommelier, poi ho continuato in sala avendo ben presente che le aspettative del cliente non devono mai essere deluse», chiarisce. «Il mio consiglio per chi vuole fare questo lavoro è studiare viaggiare e fare esperienze».

«La sala vale molto: le persone, la piacevolezza e la cura dell’ambiente, l’affidabilità e la continuità di uno stile sono caratteri rilevanti nella scelta di un ristorante», sottolinea Mariella Organi che come molti della sua generazione ha iniziato per mantenersi agli studi. «Poi un po’ spinta dall’ammirazione per alcune donne della mia famiglia che avevano fatto questo lavoro, ma soprattutto per curiosità e per una forte passione verso la gestione dell’ospitalità non ho più lasciato questo mondo». Un mondo che, nel tempo, è cambiato. «I consumi fuori casa sono in continuo aumento perché la cura degli ambienti domestici e della preparazione dei pasti è merce sempre sempre più rara – osserva -. Di fatto quelle che un tempo erano ovvietà sono state in qualche modo dimenticate». Per tutti quelli che lavorano in sala, però, queste ovvietà sono pane quotidiano. «Mettere al centro i bisogni del cliente significa conoscere gli elementi che concorrono a un’esperienza emozionale ma anche culturale e orientarlo nella comprensione di quella forma d’arte deperibile che è la cucina». Anche Mariella Organi è scettica in merito alla formazione. «Non credo si possa essere ottimisti, conosciamo la percentuale di occupazione post-diploma? Quella della sala é una professione complessa, richiede attitudine, educazione, disciplina, cultura. La formazione – fa notare – richiede i migliori esempi professionali: significa conoscere l’ospitalità contemporanea, recuperare un alfabeto del gusto che é in pericolo perché distratto dall’industria alimentare. La nostra è una bottega sartoriale, un abito su misura che non può essere improvvisato, un biglietto da visita per il nostro paese. Non può essere sprecato il tempo della formazione per questo è emergenza». E a quei ragazzi che vogliono cominciare Mariella Organi consiglia: «Viaggiate, buttatevi, presentatevi alle botteghe che ammirate, dedicate tempo a continuare a studiare, abbiate cura delle tradizione e dei luoghi ma sappiate essere anche innovatori e provocatori».

Mariella Caruso