«Per la maggior parte delle persone la pasta è un alimento, per noi è vita. È il filo conduttore che unisce quattro generazioni della mia famiglia che in mezzo alle Dolomiti ha seguito le orme del bisnonno e da 110 anni ruota intorno a un’azienda. La pasta ci ha permesso di esprimere la nostra imprenditorialità e la nostra voglia di fare anche del bene alla comunità della Val di Fiemme». Riccardo Felicetti, amministratore delegato del Pastificio Felicetti di Predazzo in provincia di Trento, non ha esitazioni nel definire cosa rappresenti per la sua famiglia quell’impasto di semola e acqua chiamato pasta.
Gli agricoltori con cui collaborate, però, sono sparsi in tutto lo Stivale.
«Essendo piccoli noi abbiamo la possibilità di staccarci dalle dinamiche del mercato convenzionale e conoscere uno per uno i nostri agricoltori. Utilizziamo per il 70% della produzione grani biologici e acquisiamo il 97% del grano in Italia e il 3% in Canada. Secondo noi il grande valore della pasta è unificare competenze per l’unico obiettivo della qualità che deve essere percepita da chi quella pasta, poi, la cucina e la mangia. Così partendo dalla Puglia dove abbiamo la nostra area di coltivazione più importante di Cappelli e di Matt, alla Sicilia dove i nostri partner agricoltori coltivano il grano biologico utilizzato per il brand Felicetti fino all’Umbria dove nelle valli che circondano Cascia, Norcia e in Valnerina cresce il farro. E poi ci spostiamo in Canada che frequentiamo sin dal 1995 quando siamo andati a conoscere gli agricoltori dai quali compriamo kamut biologico».
Dialogare con gli agricoltori significa dialogare anche con la natura?
«Chi vive nel mio territorio è stato sovente accusato di sfruttamento dello stesso. Noi, invece, abbiamo imparato a fruirne che è un’attitudine diversa. Coltivare la terra senza impoverirla, utilizzare la rotazione delle colture per trarne il massimo beneficio senza sfruttarla e fruire delle risorse naturali come l’acqua delle sorgenti del Latemar dalle quali ci approvvigioniamo e l’aria pura con la quale secchiamo la pasta sono un modo per fruire positivamente delle risorse. Noi seguiamo un paradigma che non è solo quello della massimizzazione del risultato, ma di avere la capacità di mantenere un risultato nel lunghissimo periodo. Solo così si preserva l’agricoltura e si può divulgare la bontà di un prodotto biologico: andando avanti facendo un passo indietro nelle scelte colturali che così possono preservare la biodiversità».
Il vostro merito è anche quello di aver riavvicinato gli chef all’utilizzo della pasta secca.
«Le valli dolomitiche, dalle quali noi veniamo, sono valli di turismo e noi veniamo dalla ristorazione collettiva e abbiamo seguito l’involuzione negli anni dell’utilizzo della pasta secca nel mondo della cucina. In realtà i problemi degli chef erano due: il paragone che chi entrando in una cucina stellata, davanti a un piatto di spaghetti, faceva con la cucina casalinga; il secondo è che se in una cucina stellata si sbagliava uno spaghettone saltava un servizio e questo inibiva gli chef all’utilizzo della pasta secca. Oggi anche grazie a linee di prodotti più confacenti alle esigenze degli chef si è riusciti, tutti assieme, a rendere la pasta meno banale e farla diventare di diritto ambasciatrice della nostra cucina sia in Italia, sia all’estero».
La pasta secca continua a essere la regina della cucina casalinga?
«Sì, anche se c’è una maggiore voglia di farsi in casa la pasta insieme a un diverso approccio alla pasta fresca ripiena di cui sono felice. Negli anni 70 e 80 ho visto distruggere secoli di tradizione italiana per il raggiungimento di obiettivi commerciali, modificare ripieni senza alcun costrutto tanto da essere costretti a tornare indietro lasciando molte vittime di cui la principale è la nostra tradizione che non va distrutta o demonizzata, ma rispettata».
Mariella Caruso