Grenoble, Pechino, San Pietroburgo, Mosca e adesso Santiago del Cile. Sono le città in cui, dal 1990, Marco Ricci ha svolto attività diplomatica sviluppando di pari passo una passione per l’enogastronomia, diventando un vero gourmet. «Ho sempre avuto una passione per la cucina, sin da piccolo – racconta Marco Ricci -. Devo ammettere, però, che è stato il periodo trascorso in Francia quello che ha provocato la scintilla e influito sulla mia passione verso l’enogastronomia. In quegli anni, con mia moglie, abbiamo avuto la possibilità di provare la cucina di grandissimi chef. Nelle vicinanze di Grenoble erano attivi personaggi mitici come Paul Bocuse, giganti della tradizione come i Troisgros a Roanne e astri nascenti come Pierre Gagnaire a Saint-Etienne e Marc Veyrat ad Annecy. Sul fronte enologico, da Grenoble si era a un passo dalla Borgogna e dalla parte settentrionale del Côtes-du-Rhône (quella che preferisco e dove si producono straordinari Syrah). Da quel momento, siamo partiti un po’ per curiosità un po’ per necessità professionale, alla scoperta delle eccellenze del nostro paese che in quegli anni stava vivendo una vera e propria rivoluzione sia sul fronte dell’enologia che della gastronomia. Oggi la cucina italiana si è imposta in tutto il mondo con punte di eccellenza altissime e veramente non teme rivali, anche se non dobbiamo mai abbassare la guardia». 

Ambasciatore Ricci, qual è il valore della Settimana della Cucina Italiana nel Mondo?

«Si tratta di un’iniziativa nata sulla scia del successo di Expo 2015 e che in poco tempo, grazie al sostegno degli Ambasciatori del Gusto ha rivelato un enorme potenziale risultando determinante per promuovere e valorizzare la tradizione culinaria italiana all’estero come uno dei segni distintivi della nostra immagine».

Lei è stato in servizio diplomatico a Grenoble, Pechino, San Pietroburgo, Mosca e adesso Santiago, come cambia la percezione dell’enogastronomia italiana del mondo?

«Anzitutto parliamo di un arco temporale di trent’anni. Tre decadi, queste ultime, in cui il panorama enogastronomico è cambiato in maniera impressionante a livello mondiale e in Italia in particolare. Nella Francia dei primi anni Novanta la cucina italiana era per lo più associata alle pizzerie. I vini italiani erano pressoché sconosciuti e anche nelle pizzerie spesso limitati al Lambrusco. Oggi invece Oltralpe c’è grande interesse per l’enogastronomia italiana mentre chef stellati come Pierre Gagnaire e Robuchon non disdegnano di servire, rispettivamente, burrata e pasta alla carbonara. In Cina, quando sono stato a Pechino a metà degli anni Novanta, il paese era ancora molto chiuso, anche se si vedeva già concretamente l’enorme potenziale. I russi amano tutto ciò che è italiano, anche se va fatta una distinzione importante tra San Pietroburgo, Mosca e il resto del paese. A San Pietroburgo, dove sono stato dal 2002 al 2006, abbiamo dovuto lavorare molto per cercare di promuovere l’enogastronomia italiana. Questo perché, con la fine dell’URSS i pietroburghesi oltre a ridare alla città l’antico nome (in epoca sovietica si chiamava Leningrado), hanno cercato di recuperare le antiche tradizioni e fra queste, in ambito culinario, c’era il dominio esclusivo della cucina francese, sia a corte sia a livello di ristorazione. Inoltre, quando sono arrivato erano veramente pochi i prodotti reperibili e questo rendeva praticamente inutili la maggior parte dei libri di cucina italiana. È per questo che Linda, mia moglie, decise di pubblicare un libro di ricette basato solo ed esclusivamente sui prodotti reperibili in quel momento. Tutt’altro contesto è quello di Mosca, dove la mancanza di questa influenza ‘storica’ e la maggiore disponibilità economica dei suoi abitanti, hanno fatto sì che la nostra gastronomia vi si sia affermata da subito con una grande offerta sia in termini numerici che qualitativi. Nel resto del Paese è un’altra storia, anche se non è raro trovare, persino in posti sperduti, ristoranti gestiti da italiani».

C’è qualcosa di comune ovunque si vada?

«Certo, il fatto che la cucina italiana sia un elemento caratterizzante della nostra identità, apprezzata in ogni angolo del pianeta e conosciuta da tutti (anche se la rappresentazione che se ne ha a volte è assai distante dalla realtà). Si tratta di un vero e proprio ‘soft power’ che ci permette di dialogare con successo con la grande maggioranza dei nostri interlocutori».

 

In Cile in occasione della Settimana della Cucina Italiana nel Mondo Lei ha ospitato negli ultimi due anni Corrado Assenza, Cristina Bowerman e i fratelli Costardi che sono anche Ambasciatori del Gusto, ci racconta l’esperienza?

«Sono state esperienze straordinarie per noi e, ovviamente, per coloro che hanno potuto provare le loro preparazioni. Tre diverse facce della nostra gastronomia. Iniziando con Corrado Assenza, che è stato nostro ospite nel 2017 per la seconda edizione, è evidente che siamo in presenza di un professionista difficilmente classificabile che giustamente mette in discussione le tradizionali categorie delle scienze culinarie in nome di un approccio olistico che lo ha portato a sfidare le distinzioni convenzionali tra salato e pasticceria. Nelle sue preparazioni qui a Santiago, oltre a valorizzare le sue ricerche sui prodotti ha presentato una cucina di territorio dando la parola ai prodotti, in parte provenienti dall’Italia in parte utilizzando quelli locali. Ed è proprio in questo contesto che ci rendiamo conto che la grandezza della nostra enogastronomia si basa non solo sulla qualità intrinseca delle nostre migliori produzioni, ma anche e soprattutto sull’enorme differenza di prodotti delle nostre terre. Il Cile, per esempio, ha un’ampia varietà climatica beneficiando nella fascia centrale di condizioni simili a quelle del mediterraneo ma sul mercato locale la varietà di prodotti reperibili è di gran lunga inferiore a quella che si può trovare nelle quattro stagioni in Italia. Questo vale anche sul fronte del vino, dove da tempo il Cile si è affermato come grande attore e che sta migliorando molto la qualità delle sue produzioni. Tuttavia, fino ad ora, queste sono per lo più espressione di pochi vitigni internazionali tra cui spiccano Carmenere (che era scomparso a Bordeaux dopo la filossera), Cabernet, Merlot e Pinot nero per i rossi e Sauvignon e Chardonnay sul fronte dei bianchi. Consapevoli di questo limite, ora molti produttori cileni stanno cercando di provare vitigni – spesso italiani, come Montepulciano, Teroldego e Fiano – per poter differenziare la propria offerta sui mercati internazionali. Per nostra fortuna molti di questi vitigni, al di fuori del microcosmo italico in cui si sono sviluppati, non esprimono il carattere e l’unicità che li contraddistinguono, consentendoci, credo, di poter mantenere un importante elemento di differenziazione».

Poi c’è stata Cristina Bowerman

«Un vero vulcano in termini di creatività e questo si nota anzitutto a livello professionale, nella sua continua sperimentazione di prodotti e tecniche che sono l’espressione di un approccio intelligente e costruttivo al dialogo con altre tradizioni culinarie. E tutto questo, mantenendo sempre una chiave d’interpretazione italiana. Inoltre è una grande manager e questo è dimostrato oltre che dal successo dei suoi ristoranti, un settore dove non è possibile lasciare spazio all’improvvisazione, anche dalla sua capacità di gestione dell’Associazione Italiana Ambasciatori del Gusto, di cui è presidente. È proprio grazie al suo coordinamento che abbiamo potuto realizzare, lo scorso dicembre, una serata indimenticabile dedicata a Roma, con altri due ambasciatori del gusto oltre a Cristina: Luigi Nastri e Giulio Terrinoni. L’evento – che si è svolto presso il Centro Cultural ‘La Moneda’ una struttura contigua al palazzo presidenziale cileno, una sorta di Scuderie del Quirinale –  ha rappresentato un’ottima occasione per valorizzare un’importante mostra di opere sull’antica Roma provenienti dai Musei Vaticani».

E, infine, i fratelli Costardi

«Senza dubbio tra i più qualificati interpreti di uno dei piatti più iconici della nostra cucina ma anche molto abusato nelle sue interpretazioni a livello internazionale: il risotto – aggiunge -. La sua preparazione può sembrare apparentemente semplice ma in realtà necessita di punti fermi: la qualità delle materie prime e una tecnica che ne rispetti e esalti le caratteristiche. Se a ciò aggiungiamo l’incontenibile creatività di Manuel sul fronte della pasticceria e un tocco di “pop art”, la loro performance a Santiago non poteva che essere un successo».   

Qual è il grado di conoscenze e di diffusione dei prodotti italiana in Cile?

«Relativamente limitata rispetto al potenziale. Anche se non ci sono dazi sull’importazione dei nostri prodotti, esistono varie barriere non tariffarie a iniziare dai controlli fitosanitari e relative certificazioni che limitano fortemente i prodotti freschi, specialmente nel settore caseario e delle carni lavorate. Un altro ostacolo deriva dalla fortissima concentrazione nel mondo della distribuzione che di fatto rende molto difficile, in particolare per una piccola e media impresa, riuscire a penetrare in questo mercato le cui dimensioni sono peraltro assai ridotte».  

E la diffusione della cucina e dei ristoranti italiani?

«Negli ultimi anni si è assistito ad un interesse crescente del pubblico cileno verso la cucina in generale e quella italiana in particolare. Accanto agli storici ristoranti, come Rivoli, si sono affiancate nuove proposte di qualità tra cui Brunapoli, che ora conta due locali di successo in importanti quartieri della città, mentre un cuoco italiano, Ennio Carota, è da tre anni membro della giuria di MasterChef Cile».

Quanto si sente in Cile il fenomeno dell’«Italian sounding»?

«Abbastanza, anche se in linea con quanto accade nel resto dei paesi del mondo. Su questo tema, credo dobbiamo distinguere tra chi in maniera scorretta utilizza nomi, tricolori e denominazioni per trarre in inganno il consumatore e quei produttori di origine italiana che hanno avviato già dagli inizi del secolo scorso, nei luoghi di emigrazione, la produzione di paste, conserve e altri prodotti italiani, contribuendo, non sempre in maniera ortodossa, alla diffusione e internazionalizzazione della nostra gastronomia. Qui in Cile, per esempio, la nostra influenza nello sviluppo dell’industria agroalimentare è stata determinante e quindi oggi nei supermercati cileni pasta, conserve e olio d’oliva hanno marchi con nomi italiani. Di questi, alcuni hanno conservato il carattere familiare mentre molti oramai sono in mano a gruppi economico-finanziari interessati a sfruttare l’Italian sounding, un fenomeno che ci danneggia moltissimo a che dobbiamo affrontare non solo a livello istituzionale e normativo ma anche – data l’enorme difficoltà dell’azione di contrasto – concentrandoci nello spiegare la differenza tra copia e originale.  Al netto delle imitazioni che, come spesso accade anche nel mondo della moda, possono servire a creare status symbol e dare valore all’autentico, non dobbiamo necessariamente pensare che tutti i consumatori mondiali di prodotti Italian sounding qualora questi non esistessero, si trasformerebbero in consumatori del Made in Italy (in quanto probabilmente c’è un fattore prezzo che non glielo permetterebbe). Uno dei compiti delle istituzioni e dei vari attori coinvolti in questa sfida, come l’Associazione Italiana Ambasciatori del Gusto, è anche quello di far comprendere la differenza e il valore aggiunto dell’originale, in particolare delle Denominazioni di Origine».

La Settimana della Cucina Italiana nel Mondo può essere migliorata nel format o aiutata con altre iniziative?

«La Settimana segue un format che, a mio avviso, funziona molto bene. Peraltro, nella sua seconda edizione, si è deciso in maniera intelligente di articolare ulteriormente il palinsesto di attività, dedicando ciascun giorno della settimana a un prodotto o ad un aspetto della nostra gastronomia. Ciò ha permesso di mostrare al pubblico, in maniera ancor più efficace, la grandissima qualità e varietà della nostra cucina, vera e propria punta di diamante del Made in Italy. Ovviamente, quest’azione promozionale, non deve limitarsi a una sola settimana di eventi. Occorre che da parte nostra sia accompagnata da uno sforzo continuo di sostegno alle imprese del settore, molto spesso PMI, impegnate quotidianamente a conquistare quote di mercato all’estero».  

Quale può essere il ruolo dell’Associazione Italiana Ambasciatori del Gusto?

«Gli Ambasciatori del Gusto rappresentano una risorsa essenziale per dare un forte impulso all’azione di promozione della nostra gastronomia all’estero. I prestigiosi chef che vi hanno aderito e la disponibilità dimostrata a raggiungere i luoghi più remoti, sono una condizione indispensabile per dare il giusto rilievo alla qualità della nostra gastronomia e nel mostrare gli elementi portanti della cucina italiana anche nelle diverse declinazioni regionali: importanza degli ingredienti (in termini di qualità e freschezza), rispetto e valorizzazione dei territori, l’innovazione delle ricette nel rispetto dei canoni che identificano la nostra cucina».

Mariella Caruso