Come comunicare il cibo e l’alimentazione, il lavoro degli chef e quello dei contadini, la qualità dell’agroalimentare alimentare, i territori e l’enoturismo senza dimenticare la sicurezza alimentare e le contraffazioni? Se l’è chiesto l’Associazione culturale “Pensare il cibo” che ha organizzato, dal 22 al 24 febbraio a Torino, la terza edizione del Festival del Giornalismo Alimentare.

«Un’edizione che abbiamo voluto aprire con un dibattito su quali dovrebbero essere le politiche alimentari per la prossima legislatura – sottolinea l’ideatore e direttore del Festival Massimiliano Borgia -. In questi anni il tema del cibo con tutte le sue declinazioni, è diventato centrale nell’agenda politica e si tratta di un nodo cruciale per il prossimo Parlamento e per il prossimo Governo che erediteranno anche il 2018, Anno del Cibo Italiano».

Qual è, in generale, l’intento del Festival e dell’Associazione che lo organizza?

«Un confronto costante sulla qualità dell’informazione del cibo che passa da politiche e dalla sicurezza alimentare, contraffazioni, Made in Italy, promozione del territori, cambiamenti climatici, enoturismo, sprechi alimentari ed etichette con i principali comunicatori del settore: giornalisti di testata, free lance, social media manager, blogger e anche influencer».

Perché la scelta di non individuare un tema specifico per ogni edizione del Festival?

«I temi dell’alimentazione vengono trattati in ogni settore del giornalismo. Se ne parla nelle pagine della politica, della cronaca giudiziaria, finanziaria, nelle trasmissioni televisive generaliste, di settore e di inchiesta. Il problema che ci siamo posti, di fatto, è stato quello di come riuscire a rappresentare questo mondo che diventa sempre più variegato parlando di tutti i tipi di comunicazione alimentare in essere. Riteniamo che il dovere del Festival sia intercettare le attualità».

Sottotraccia, però, aleggia su tutto il tema della deontologia, ovvero come raccontare correttamente un settore trainante dell’economia italiana.

«C’è un grande tema deontologico. È necessario capire come le ormai non troppo nuove generazioni dei comunicatori, giornalisti che non sono assunti dalle redazioni e spezzettano il loro lavoro in tanti rivoli tra cui siti web e uffici stampa, a cui si aggiungono i comunicatori che si occupano di giornalismo di brand che segue direttamente le aziende in maniera diversa rispetto agli uffici stampa possono interpretare correttamente il loro compito. Poi ci sono gli influencer che solo apparentemente sfuggono al dibattito, ma si tratta pur sempre di una nuova figura, che in qualche modo fa informazione».

Avete affrontato anche il tema della comunicazione delle eccellenze dell’enogastronomia italiane all’estero. Quali sono i nodi da sciogliere?

«In Italia stiamo vivendo sugli allori di un clichè vincente, quello dell’Italia iconica del buon vivere. Si dimentica sovente di comunicare l’attenzione all’innovazione nel rispetto della tradizione di un settore in cambiamento, dei nostri chef che si fanno strada reinterprentando la tradizione. C’è, poi, anche da raccontare la parte industriale dell’agroalimentare italiano. Ma, ancora prima, si dovrebbe educare lo straniero alla qualità del cibo italiano.

Altri messaggi profondi dovrebbero essere quelli sulla  sicurezza alimentare, sulle agromafie, sul rapporto città-campagna, sull’approvvigionamento delle città e la valorizzare dei prodotti dei contadini. Compiti che dovrebbero attenere alle istituzioni ma che, sempre di più, ogni territorio fa in maniera autonoma. E questo, forse, non giova al brand Italia».

Mariella Caruso