«Il ruolo del sommelier nell’alta ristorazione è importantissimo, purtroppo però è ancora una figura poco presente in Italia. Spesso in quella posizione i ristoratori tendono ad arrangiarsi». A parlare è Marco Reitano del ristorante La Pergola dell’Hotel Rome Cavalieri, Ambasciatore del Gusto e per la critica tricolore miglior sommelier d’Italia.

Cosa intende per arrangiato?

«Una figura i cui compiti sono, di frequente, relegati alla sala oppure svolti dallo stesso patron anche se non ha le competenze necessarie. Inutile dire che si tratta di un errore. Oggi la scelta del ristorante si fa anche in base alla carta dei vini. Ma se fino a un po’ di tempo fa le carte importanti erano appannaggio soltanto di locali di alto livello, adesso le cose sono cambiate e si possono trovare liste di vini interessanti anche in locali semplici osterie o trattorie di cucina tradizionale. In quest’ultimo caso, essendo la proposta gastronomica molto simile, la carta dei vini può essere un’attrattiva in più e, managerialmente, può incrementare dal 30 al 70% l’incasso. Di fatto si tratta di un business sul quale c’è poco investimento da parte dei ristoratori».

Quali sono i canali che vanno per la maggiore per l’approvvigionamento della cantina?

«Considerando il problema della mancanza di figure professionali dedicate è chiaro che per i locali è più comodo avere non più di tre referenti per l’acquisto del vino. Poi c’è chi predilige comprare nelle enoteche trasformatesi in grossisti. Questo avviene, di solito, per non sovraccaricare il magazzino del locale quando gli spazi sono molto ristretti o non c’è la capacità di investimento».

In che senso?

«Avere una cantina ben fatta e ben fornita è un investimento e non c’è ancora la mentalità di impegnare una parte di capitali nella cantina. Il primo nodo è ricavare nel locale spazi adibiti alla cantina ai quali si dà ancora troppa poca importanza in fase di progettazione. C’è chi si accorge di non averci pensato dopo aver ordinato la prima fornitura. Infatti, quando mi chiamano per fare delle consulenze, prima di cominciare verifico se ci sono le condizioni in termini di investimento economico e spazi».

Quali sono i tuoi consigli per una carta vini minimamente valida in un piccolo ristorante?

«Per avere una buona varietà che si sposi con la cucina e, soprattutto con le esigenze economiche e di gusto di tutti i clienti, la base è di 70/80 etichette. In questo modo si può avere una scelta di vini italiani e stranieri, champagne, vini a bassa gradazione. Praticamente con sei bottiglie per 70 etichette ci sarebbero da gestire circa 400 bottiglie da tenere parte in frigo e parte in magazzino».

Nient’altro?

«Per i ristoranti storici e quelli di quartiere con la clientela che torna spesso è utile un ricambio degli stock. Il sommelier, per esempio, capisce qual è il momento giusto per rinnovare la carta. Basta ascoltare i clienti».

Sono tanti i clienti che preferiscono il bicchiere alla bottiglia?

«Dipende dal tipo di ristorazione. Se da una parte c’è una moda anglosassone di degustazione i vini al calice, dall’altro c’è chi non va oltre il bicchiere a tavola. Naturalmente se parliamo di ristoranti con grande afflusso diventa più facile proporre il vino al bicchiere anche aprendo bottiglie che non sono in lista. Questo della degustazione è anche un elemento di fidelizzazione».

Da dove deve partire chi vuole fare questo lavoro?

«C’è un mondo di corsi molto vasto. Ce ne sono molti ben fatti, ma non qualificanti a livello professionale perché ti spiegano il vino, ma non come lavorare in un ristorante come sommelier dal punto di vista manageriale. Chi però vuole frequentare un corso perché ha l’ambizione di lavorare come sommelier deve scegliere una formazione precisa che deve tenere conto del lavoro in sala. Anche in questo caso, purtroppo, tra corsi amatoriali e professionali c’è ancora molta confusione».

Cosa succede se un cliente chiede un vino sbagliato rispetto al menù che ha scelto?

«Semplicemente glielo serviamo. Al ristorante non si fa didattica, non esistono leggi divine che impediscano di bere un vino anziché un altro. Il nostro compito è dare ai clienti gli strumenti per capire, magari spiegarli perché l’accostamento non va bene col menu, e questo implica anche conoscere bene il lavoro della cucina e, in primis, di soddisfare le sue esigenze».

In una carta deve esserci, in chiave generale, l’equilibrio qualità-prezzo?

«Rientra nella selezione e nella composizione di una carta vini dare a tutti la possibilità di spendere quanto desiderano. Non si possono mettere in carta soltanto bottiglie da 200 euro. Col vino non capita quello che è normalità con alcuni ingredienti come il caviale in cui al cambio di produttore la differenza di prezzo è minima. Nel vino c’è una forbice molto ampia il vino perché si tratta di una produzione che si rapporta anche all’artigianalità e alle piccole produzioni in cui i costi vengono abbattuti, per esempio, dall’assenza di costi di marketing, pubblicità e altri. L’intelligenza del sommelier sta proprio nella costruzione di una carta vini in relazione a tipo di ristorazione, location dell’esercizio, tipo di clientela».

Il ricarico è un’altra nota dolente…

«Ci sono locali che applicano il 2 come moltiplicatore sul vino indipendentemente dal canale di approvvigionamento, una consuetudine che squilibra i prezzi della carta e non accontenta il cliente che può trovarsi davanti a etichette che costano il doppio rispetto all’enoteca».

Le è mai capitato in Italia la richiesta del “diritto di tappo”?

«Non siamo in Inghilterra dove, non essendoci una produzione propria, c’è chi porta il proprio vino, magari pregiato, al ristorante. Da noi sarebbe davvero strano a meno che non si tratti di una bottiglia simbolica per festeggiare un evento particolare. Detto questo non devono essere chiusure e noi siamo aperti da questo punto di vista».

Mariella Caruso