Dal 12 febbraio il professor Alberto Capatti, storico della cucina e della gastronomia nonché fino al 2011 rettore dell’Università di Scienze Gastronomiche di Pollenzo e Benemerito dell’Associazione Italiana Ambasciatori del Gusto, è il presidente della Fondazione Gualtiero Marchesi. A lui la famiglia Marchesi, ha affidato il compito di portare avanti l’eredità del Maestro, emblema della nascita della “nuova cucina italiana”.
Un compito che Capatti sta interpretando con grande responsabilità perché, molto più di altri, è consapevole che quella di Gualtiero Marchesi «è la storia dell’alimentazione dagli anni Ottanta ad oggi, vissuta da lui con le dita al lavoro, con la parola, con la scrittura e con la musica, e l’immediato futuro, con cui la Fondazione deve misurarsi», ha spiegato subito dopo l’investitura.
Professor Capatti come sta interpretando questa presidenza della Fondazione Marchesi?
«Il mio ruolo arriva, dopo un periodo abbastanza lungo in cui Marchesi aveva diretto la Fondazione ispirandosi alla sua esperienza non solo culinaria, ma di tutte le sue cognizioni artistiche e filosofiche necessarie per valorizzare la cucina cucinata facendone un artifizio di alto valore. Si è trattato di un periodo in cui la riflessione di Marchesi sulla propria opera e sulla sua portata è stata fondamentale. Questo nuovo periodo si apre, al contrario, sulla commemorazione che vuol dire togliere la parola a chi ha pensato e agito e dare vita a un discorso sostitutivo. Una commemorazione che va fatta anche nei debiti modi: il 19 marzo, per esempio, ci sarà un evento, non solo milanese, in cui sarà presentato un film su Gualtiero Marchesi e promossi alcuni dei suoi piatti come il risotto oro e zafferano in un banchetto».
Andando al di là di questa commemorazione classica…
«Sono due gli obiettivi. Da un lato rendere la vita di Marchesi stesso dagli anni 50 a oggi come una periodizzazione significativa della nostra cultura alimentare e quindi di indagare questa storia dell’alimentazione contemporanea. Dall’altro rivolgersi alla cucina presente il cui attore e ispiratore fondamentale è il cuoco. Dire cuoco significa, però, evocare anche le mansioni sostitutive della professionalità quando parliamo, ad esempio, del cuoco casalingo senza dimenticare le altre persone che operano nella gestione. Sotto il profilo storico-culturale, invece, si deve attualizzare tutto il fenomeno della cucina».
Parlando di cucina qual è il valore del “Fattore umano”, tema scelto dal Congresso “Identità Milano 2018”, in questo momento storico?
«La cucina è sempre stata un luogo dove ogni oggetto (dalla pentola a qualsiasi utensile) parla il proprio linguaggio e, nello stesso tempo, è da sempre un luogo in cui ogni cuoco visualizza il proprio piatto cercando di renderlo possibile. Quindi un luogo di immaginazione e di operazione che non può esistere senza la combinazione di questi due elementi. Il valore del fattore umano, quindi, è tutto a partire dall’ideazione degli utensili fino al concepimento dei piatti».
Esiste una discrepanza tra un certo narcisismo della figura del cuoco rispetto alla “sostanza” del piatto?
«Più che una discrepanza direi che il processo immaginario che sta alla base del fare cucina anche nella dimensione quotidiana di preparare un semplice spaghetto al pomodoro si presta a moltiplicazioni infinite. Più che una discrepanza, in realtà, parlerei di una sorta di enfatizzazione costante nell’immaginazione dell’oggetto culinario stesso. Naturalmente i media hanno avuto un ruolo importante in questa enfatizzazione, ma l’uomo nella sua storia non ha mai finito di immaginare. Anche quando, negli anni 80, la televisione si occupava poco della cucina con un’unica trasmissione “A tavola alle 7” in cui Luigi Veronelli e Ave Ninchi dialogavano facendo una cucina, per così dire, modesta e gli storici, al contrario, magnificavano la realtà impossibile dei grandi banchetti rinascimentali fatti di centinaia di portate costruite da cuochi di cucine principesche, alla ricerca di un valore originario fondatore della cucina italiana».
Oggi la cucina italiana come si pone rispetto alle grandi cucine europee di tradizione come quella francese o d’avanguardia come quella spagnola?
«Mi piace pensare alla cucina italiana dal basso e non dall’alto. In Italia la pasta, la pizza e il panino costituiscono una sorta di imperialismo globale con un solo principio nutritivo che è la farina – disponibile dappertutto – con il quale si costruiscono oggetti alimentari diversi. Ecco io partirei da qua».
Mariella Caruso