Con Nikita Sergeev torniamo a parlare di Ambasciatori del Gusto stranieri che interpretano la cucina italiana.
Non fosse stato per una laurea in Scienze politiche non riconosciuta in Italia, forse oggi in Italia avremmo uno chef in meno e un impiegato in più. A cambiare la vita di Nikita Sergeev, chef de L’Arcade di Porto San Giorgio, infatti, è stata la scoperta che quel titolo di studio conseguito a Mosca, «con Erasmus a Firenze», in Italia non valeva alcunché. «Non ero pronto ad altri tre, quattro anni di studio per far convalidare la laurea. Non volevo più pesare economicamente sulla famiglia, così a 22 anni decisi di puntare su quello che fino a quel momento era un hobby: la cucina. Cercai una scuola e trovai l’Alma di Colorno. A quel tempo, però, non sapevo nemmeno chi fosse Gualtiero Marchesi. Avevo letto che era il rettore e immaginavo fosse un grande chef», racconta Nikita Sergeev.
Nato a Mosca e cresciuto nel mondo Nikita Sergeev è uno che non vuol sentire parlare di frontiere, né territoriali né gastronomiche. «Per via del lavoro dei miei genitori la mia è stata una famiglia di girandoloni, abbiamo vissuto in Danimarca e Germania e questo mi ha aperto gli occhi. Dell’Italia ci siamo innamorati visitandola da turisti», racconta Sergeev, classe 1989, che si è stabilito nel nostro Paese da una quindicina d’anni e ha scelto le Marche come casa per sé e per il suo ristorante. «Come attesta il diploma di cuoco preso all’Alma di Colorno, però, sono un cuoco di cucina italiana», rivendica l’Ambasciatore del Gusto.
Quindi il suo approccio alla cucina è stato all’insegna dell’italianità…
«Professionalmente parlando sì. Poi naturalmente nella mia cucina c’erano sempre delle contaminazioni con la cucina russa di mamma e nonna. Quindi anche se sono straniero in Italia, paradossalmente mi considero strettamente un interprete della cucina italiana».
Com’è cominciata l’avventura de L’Arcade?
«Dopo il diploma all’Alma, nel 2013, per avere il permesso di soggiorno ho aperto L’Arcade. E sono ancora qua».
C’è qualcosa di russo nella sua cucina?
«Nei ricordi e nei sapori ce n’è tanta. Parlando con i clienti, però, ho scoperto di avere un palato diverso, più incline a certe acidità che non sono proprie di un italiano medio. Per esempio sono abituato alle fermentazioni che solo adesso stanno prendendo piede in Italia come novità assoluta, ma per me fanno parte della tradizione. Per me è interessante poter proporre una cucina italiana vicina al mio palato che ama l’acido e l’amaro ed è un po’ lontano dalle dolcezze. Tutto il contrario del mio carattere che, invece, è molto dolce».
Cosa propone di fermentato nella sua carta?
«Diversi piatti. Tra questi anche una tartare di gamberi rosa dell’Adriatico servita su un dripping di estratti di diverse verdure fermentate: rape, carote, sedano e, nella stagione invernale, anche broccolo. Andando oltre il fermentato, un altro ingrediente che propongo è il cavolfiore crudo che per consistenza, gusto e piccantezza trovo eccezionale. Anche questo, però, non è usuale in Italia: se ne comincia a parlare solo perché Niko Romito ha cominciato a usarlo».
Per sua ammissione la sua è una cucina d’ingrediente. Cosa intende?
«Io voglio che i miei piatti si facciano ricordare per la definizione dei sapori. Se mette il cavolfiore voglio che il cliente lo riconosca, se non accade è una mia sconfitta. Per questo utilizzo pochi ingredienti che, oltre tutto, devono rispecchiare il territorio: il mio è un ristorante sul mare e voglio esaltare il mare».
Qual è l’ingrediente che predilige?
«Il pesce. Tra quelli nobili amo il rombo, tra i poveri lo sgombro».
Oggi si sente più russo o più italiano?
«Mi sento cittadino del mondo, ma mi sto italianizzando molto pur senza dimenticare le mie radici».
Mariella Caruso