Con Roy Caceres torniamo a raccontare l’interpretazione della cucina italiana da parte degli Ambasciatori del Gusto di origine straniera.
A quarant’anni appena compiuti l’Ambasciatore del Gusto Roy Salomon Caceres, chef stellato del Metamorfosi di Roma, è fiero di essere il figlio di due Paesi: Colombia e Italia. Che per chi passa il suo tempo in cucina significa avere riferimenti sensoriali diversi. «Ho la fortuna di avere doppia nazionalità e doppia cultura. Sono arrivato in Italia quando avevo 16 anni perché mia madre si era trasferita qui», racconta Caceres, diventato cuoco «per caso». «All’inizio volevo fare il giocatore di basket, ero abbastanza bravino, ma non avevo i documenti per il tesseramento. Così ho cominciato a fare il lavapiatti a Misurina e ho capito che questo mondo mi attirava. E… – continua sorridendo – mi piace anche mangiare».

Qual è la tua interpretazione della cucina italiana?
«La mia cucina è partita proprio da quell’italianità che non mi apparteneva. Sono un autodidatta, non ho mai frequentato una scuola per cuochi e, sentendomi sempre un passo indietro rispetto a chi l’aveva fatto, ho sempre studiato molto per conto mio. Quando i miei amici andavano in discoteca, io rimanevo in casa a consumare libri. Intanto passavo da commis a chef de partie e a sous chef, giravo in alberghi nelle Dolomiti, in Lombardia, Toscana, Lazio e conoscevo la cucina italiana territoriale. Mi mancavano, però, i racconti delle ricette della nonna, le radici della cucina che ho appreso fermandomi a chiacchierare con chiunque potesse arricchire le mie conoscenze a partire dalla mamma di mia moglie Alessandra, mamma dei miei tre figli tutti italiani, che è sarda. Paradossalmente dieci anni fa facevo una cucina più italiana di adesso».
Che cosa l’ha spronata a cambiare passo per la «Metamorfosi» della sua cucina?
«Dopo aver passato otto anni alla Locanda Solarola, di cui gli ultimi due anni e mezzo da chef con il mantenimento della stella Michelin, alcune vicende legate al passaggio di proprietà del resort, mi hanno spinto a cercare un luogo dove poter esprimere la mia cucina. Ho trovato dei soci, qui a Roma, e dopo una parentesi con Alessandro Pipero ad Albano, sette anni fa è nato Metamorfosi. Un anno e mezzo dopo l’apertura ci hanno dato la prima stella Michelin».
Come definirebbe oggi la sua cucina?
«La mia cucina non ha paletti, so com’era ieri e com’è oggi, ma non posso sapere come sarà domani. A me piace cambiare, la staticità non fa parte di me. La mia cucina è emozionale, tende a coinvolgere il cliente. Inoltre ho imparato a fare il ristoratore curando a 360° il locale: dalla sala alla cucina per rispecchiare la mia visione. Però, all’inizio, c’era sempre qualcosa che mancava: erano le mie radici che fino a quel momento avevo nascosto. Così ho cominciato a contaminare i miei piatti con alcuni ingredienti e tecniche sudamericane come marinature, ceviche. Adesso la mia cucina parla di me: della Colombia, del mio amore per l’Asia e della mia vita italiana e piace sempre di più. Al Metamorfosi non servo una carbonara classica perché, al momento, non mi rispecchia».
Perché ha nascosto così tanto le sue radici?
«Forse mi mancava la maturità di capire che io sono un albero cresciuto in Italia con radici colombiane. Volevo identificarmi con il Paese in cui vivevo. Oggi sono più libero, quando viaggio in qualunque parte del mondo, porto le emozioni provate al Metamorfosi».
Per lei, Ambasciatore del Gusto di origine straniero, cos’è la cucina italiana?
«È impossibile codificarla, ogni nonna ha la sua ricetta. Il bello dell’Italia è la sua diversità che, secondo me, deve diventare la sua forza. Ogni posto, anche se a distanza di pochi chilometri, ha qualcosa da ricordare, un ingrediente unico. Nell’Europa del Nord sono stati bravissimi a valorizzare pochi ingredienti e valorizzare un filone importante. In Italia facciamo fatica a renderci conto di tutte le meraviglie che abbiamo».
Mariella Caruso