Non sono passati molti anni da quando Paolo Griffa sedeva tra i banchi dell’Istituto alberghiero Giolitti di Torino. Classe 91, lo chef del Grand Hotel Royal e Golf di Courmayeur che cura anche la cucina sia del Grand Royal sia del Petit Royal, è un grande fautore della formazione che, come sottolinea l’Ambasciatore del Gusto, «non finisce mai». Quella scolastica, però, se è formazione di qualità lascia il segno. «Devo molto ad Alessandro Ricci, un professore fantastico che mi ha fatto appassionare a questo lavoro facendomene vedere tutti gli aspetti, da quelli entusiasmanti a quelli negativi», ammette. «Mi ha mandato in stage in posti in cui ho imparato qualcosa – continua Griffa -. Mi ha fatto partecipare a molti concorsi mettendomi in sfida non con gli altri, ma con me stesso; mi ha fatto capire che è importante anche ciò che si apprende dai libri». Non è un caso che oggi la “biblioteca” privata di Paolo Griffa conti oltre 2000 libri, alcuni dei quali viaggiano sempre con lo chef. «Sono Tradizione in evoluzione. Arte e scienza in pasticceria di Leonardo Di Carlo, Larousse des desserts, Modernist Cuisine at home, tutta la serie dei libri di El Bulli ed Eleven Madison Park che – dice lo chef – continuo a sfogliare nonostante li conosca a memoria».

Quindi le persone che formano sono importanti tanto quanto la formazione in sé?
«Sicuramente. Informazione e cultura si possono trovare ovunque, ma se non c’è chi innesca la curiosità e la passione che alimenta la fiamma per il proprio lavoro studiare è inutile. Oggi esistono tanti formatori, ma pochi maestri che sono quelli che, oltre alle basi della cucina, t’insegnano il metodo per continuare a restare informato».

È stato importante per te conoscere sin da subito le difficoltà di questo lavoro?
«Molto, a partire dagli orari che, in occasione degli eventi, erano più che flessibili. E poi le gerarchie e i ruoli da rispettare che rappresentano un problema per le giovani generazioni».

È una questione culturale?
«Oggi il rispetto dei ruoli non è considerato fondamentale, e non parlo soltanto di gerarchie in cucina. Ci sono bambini che già non rispettano i genitori, andando avanti non rispetteranno prima gli insegnanti e poi i datori di lavoro».

Non esiste anche un problema di comunicazione della professione?
«C’è una distorsione perché il nostro è un mestiere facilmente stereotipabile. Si tende a non voler sapere che dietro alla celebrità del cuoco c’è fatica, che si cucina tutti i giorni. Da un certo punto di vista noi chef abbiamo approfittato di questa distorsione perché, per esempio la televisione porta notorietà e rende economicamente. Però bisogna analizzare il fenomeno e discernere bene i messaggi. Io ho fatto due stagioni di “Detto fatto” su Raidue e ho imparato che bisogna stare attenti a cosa si dice. A me, per esempio, fanno impressione i ragazzini di Junior Masterchef che a 10 anni usano un linguaggio incredibile che nemmeno dopo 5 anni di scuola superiore».

Tu hai partecipato al convegno “Prima la formazione” degli Ambasciatori del Gusto. Secondo il tuo punto di vista su cosa dovrebbe puntare la formazione scolastica?
«Rigidità, rispetto dei ruoli e scrematura di chi non ha passione per questo lavoro. Non bisogna rimanere tra i banchi solo per ottenere un diploma e poi cambiare lavoro. Anche i programmi vanno aggiornati, ci si dovrebbe concentrare bene sulle basi perché molto altro s’impara lavorando. Invece ci si trova davanti a stagisti che non sanno tenere in ordine il proprio banco di lavoro o non riconoscono un’erba che sta per marcire da una che ha bisogno soltanto di essere ravvivata».

Qual è la cosa principale che chiedi a uno stagista quando arriva da te?
«Di tenere in ordine il tavolo da lavoro ed entrare a far parte di un gruppo. I quattro punti cardine sono: rispetto dei ruoli, pulizia, ordine e conoscenza».

Mariella Caruso