È firmato dal Ministro dello Sviluppo Economico Luigi Di Maio, dal Ministro delle Politiche Agricole, Alimentari, Forestali e del Turismo Gian Marco Centinaio e da Giulia Grillo, Ministro della Salute, il decreto che, dal 19 dicembre, disciplina la denominazione di «panificio», di «pane fresco» e regola l’adozione obbligatoria della dicitura «pane conservato» o «a durabilità prolungata».
Il decreto, il numero 131 del 1 ottobre 2018, stabilisce intanto che per «panificio» s’intende «l’impresa che dispone di impianti di produzione di pane ed eventualmente altri prodotti da forno e assimilati o affini e svolge l’intero ciclo di produzione dalla lavorazione delle materie prime alla cottura finale». Ciò significa che chi acquista pane da altri e lo rivende non può più utilizzare la dicitura panificio per identificare la propria attività. Per «pane fresco», poi, viene identificato quello per la cui produzione non devono essere utilizzati «additivi conservanti» e «altri trattamenti aventi effetto conservante». Inoltre deve essere «preparato secondo un processo di produzione continuo, privo di interruzioni finalizzate al congelamento o surgelazione». L’intervallo di tempo tra l’inizio della lavorazione e la messa in vendita del prodotto finale, affinché il pane possa essere definito fresco, è di 72 ore. Infine, a parte l’obbligatorietà il «pane conservato» o «a durabilità prolungata», se non preimballato, dovrà essere esposto in scomparti separati da quelli del pane fresco. La nuova normativa, nelle intenzioni del legislatore, dovrebbe garantire la massima trasparenza ai consumatori che, così, potranno sempre sapere se il pane che acquisteranno, anche se pubblicizzato sempre come appena sfornato, è fresco di forno o soltanto ravvivato al momento. Di fatto, però, il decreto non convince appieno i panificatori e, soprattutto, non li mette d’accordo anche perché è frutto di un dibattito che affonda le sue radici indietro nel tempo. Per questo, avrebbe già bisogno di essere adeguato alla luce di un mercato in rapido cambiamento in cui i panificatori più illuminati stanno diversificando la propria attività trasformando in chiave “moderna” i panifici, mentre i piccoli continuano ad arrancare e non sarà certo questo regolamento, sacrosanto per i consumatori, ad aiutare la sopravvivenza della categoria in un Paese in cui il consumo di pane si è abbassato, includendo focacce e pizze dai forni artigianali, a circa 164 grammi al giorno procapite.
Antonio Cera. «In queste disposizioni non c’è alcuna salvaguardia della qualità, chi fa il pane cattivo può continuare a farlo. Sono convinto che l’abbattimento del pane, invece, potrebbe essere una grande risorsa per il vero panificatore artigianale che in questo modo può produrre il suo pane senza alcun tipo di conservante», dice Antonio Cera, Ambasciatore del Gusto con laurea alla Bocconi e forno a San Marco in Lamis, nonché fondatore del Manifesto futurista del pane. Il motivo? «La Gdo che vende pane a basso costo non compra il buon pane dell’artigiano che, per fugare subito ogni dubbio, è quello che è buono da mangiare e dà una giusta remunerazione a tutta la filiera, dall’agricoltore fino al dipendente del panificio. Un prodotto del genere non può essere venduto a meno di 6-6,50 euro», osserva il Cera che vende il pane in negozio dai 2 ai 5 euro. «La mia, attualmente, è una vendita in perdita, ma m’interessa avvicinare i consumatori e farli guardare alla qualità del pane perché – afferma – fra 4 o 5 anni solo la Gdo potrà vendere pane (non si sa di che qualità) a basso costo, e a resistere saranno solo i panificatori artigianali che avranno allineato il prezzo alla realtà». L’ostacolo, che di primo acchito sembra insormontabile, riguarda la natura stessa del pane, «considerato un bene di prima necessità e quindi da vendere a basso prezzo. Un concetto che dovrà essere superato, se si vuole la sopravvivenza dell’arte della panificazione: il pane non può più essere un “alimento democratico”, ma diventare un bene per il quale si deve essere disposti a spendere, esattamente come si fa con la pizza o il panettone», chiude Cera.
Francesco Arena. Panificatore artigianale a Messina, l’Ambasciatore del Gusto Francesco Arena, è d’accordo con Cera sulla necessità di dove cambiare la concezione del pane nell’opinione pubblica. «Chi compra il pane a due euro al chilo deve sapere che è impossibile che stia acquistando un prodotto di qualità», concorda l’artigiano che mette in vendita il suo pane dai 4 euro in su che, però, plaude all’entrata in vigore del nuovo decreto. «Sono convinto che per noi piccoli artigiani avrà conseguenze positive perché i consumatori saranno obbligati a riflettere, un po’ come fanno quando si trovano ad addentare una brioche decongelata. Se poi – continua – si prenderanno la briga di leggere l’etichetta si renderanno conto della presenza dei miglioratori che possono essere naturali (enzimi e/o malto per innescare la lievitazione) o chimici come acido ascorbico, acido tartarico, antimuffa, antifilante necessari per la lunga conservazione del pane».
Pascal Barbato. È fuori dal coro la voce di Pascal Barbato, Ambasciatore del Gusto anch’egli come Cera con forno a San Marco in Lamis. «Considero questa dell’etichettatura una battaglia anacronistica», dice senza mezzi termini. «Non sono queste le lotte da fare, piuttosto i nostri governanti dovrebbero aiutare i panificatori a non essere strozzati dalla Gdo», afferma. «Le etichette, del resto, possono mentire perché esistono miglioratori termolabili di cui non si trova traccia quando il pane è messo in vendita potrebbero non essere indicati», fa notare Barbato. Ovviamente, in quest’ultimo caso, si entra nel novero di una sofisticazione alimentare. «Non sarà concentrarsi sulla dicitura «pane conservato» o «a durabilità prolungata», che io dovrò utilizzare per alcuni pani speciali che non produco giornalmente, che cambierà le cose. Ogni problema, infatti, se segmentato non produce soluzioni ottimali».
Mariella Caruso