Nel 1961 Franco Ziliani e Guido Berlucchi rivoluzionarono il mondo del vino della Franciacorta con la produzione delle prime bottiglie di Pinot Franciacorta. «Oggi vorremmo che l’azienda Berlucchi potesse essere un traino per il successo internazionale di tutto il comparto vitivinicolo della Franciacorta», confessa Paolo Ziliani, figlio di Franco che è a capo della comunicazione dell’azienda di Borgonato. «Da quando grazie all’intuizione di mio padre e di Guido Berlucchi venne prodotta la prima bottiglia di bollicine in Franciacorta, la notorietà del brand, del vino e del territorio è cresciuta molto bene in Italia. Nei prossimi 50 anni bisogna dare la spinta giusta per aumentarne la notorietà all’estero seguendo la stessa via di altri vini come il Barolo, il Brunello e lo stesso Prosecco», sottolinea Ziliani concentrandosi anche «sul piccolo fazzoletto di terra che è la Franciacorta importante anche dal punto di vista storico». Oltre alle sue cantine, «tutte orientate verso una produzione di qualità», infatti, il territorio è ricco di «palazzi bellissimi, case storiche, dimore medievali molto belle tra cui anche il nostro Palazzo Lana, sede e luogo sacro dove è nato il primo Franciacorta».
Sentite molto questa responsabilità di essere l’azienda pioniera?
«Assolutamente sì. Questo è un concetto diffuso all’interno del Consorzio per la Tutela del Franciacorta, che si è dotato di un disciplinare molto più severo di tanti altri che stabilisce, per esempio, che non si possono produrre oltre 8.600 bottiglie per ettaro».
Cosa rappresenta, invece, il Franciacorta per la famiglia Ziliani?
«Praticamente tutto. La nostra azienda, oltre a essere sinonimo di territorio, per noi è la vita. Nessuno ha mai pensato di occuparsi d’altro, ognuno ha le sue specifiche competenze e, ovviamente, ci sono delle visioni diverse che ci fanno confrontare facendoci crescere. Io sono un enologo come mio padre, quando ho cominciato a prendere in mano la produzione portando innovazione in azienda mi sono scontrato anche con mio padre che, però, poi ha riconosciuto la bontà delle mie scelte in merito al rinnovo completo dei vigneti con una elevata densità d’impianto e l’innovazione dei processi di produzione. I costi elevati di queste operazioni, infatti, alla fine ci hanno premiato».
Tecnologia e sostenibilità vanno a braccetto nei vostri vigneti. Quando e perché avete deciso la conversione al biologico?
«Tutto è nato da uno studio propostoci dall’Università di Milano per verificare se la conduzione biologica dei vigneti fosse meno impattante di quella tradizionale. Abbiamo cominciato a convertire con un vigneto di 10 ettari e dopo 5 anni lo abbiamo fatto con tutti gli 85 ettari dei vigneti di famiglia che oggi sono tutti certificati. Ma c’è di più perché siamo riusciti a convincere la maggior parte dei vigneron che conferiscono le loro uve in azienda, in totale lavoriamo su circa 550 ettari, a convertire in biologico le loro produzioni. Questo non significa che ambiamo a mettere il bollino verde sull’etichetta, ma a fare il miglior vino possibile. Perché non bisogna dimenticare che noi abbiamo un socio di maggioranza: il clima che determina, in primo luogo, la qualità dell’annata».
Come state affrontando i cambiamenti climatici?
«Negli ultimi 15 anni le vendemmie sono state mediamente anticipate per la maturazione precoce delle uve. A questo rispondiamo con un’accurata conduzione del vigneto, lasciando più foglie per ombreggiare i grappoli, utilizzando tecniche di spremitura accurate per mantenere freschezza e acidità. Adesso stiamo provando l’impianto di un’antica qualità bresciana, l’erbamat, un’uva molto verde che matura un mese dopo la chardonnay che è stata inserita nel disciplinare Franciacorta».
Quale tra i vostri vini considerate il più rappresentativo?
«Personalmente sono molto soddisfatto del nuovo ’61 Nature Rosé – un rosé non dosato, millesimato del 2011 – presentato al Vinitaly 2018 perché coniuga l’eleganza e la freschezza di un bianco, di un brut o di un satèn alla complessità di un vino più corposo. Oggi il rosé è di tendenza, ma a me piace ricordare che il primo sul mercato è stato il Max Rosé 1962».
Oggi Berlucchi significa anche cultura, quanto orgoglio c’è in questo da parte vostra?
«Noi ci stiamo sforzando di comunicare il nostro orgoglio e di portare in Franciacorta tutti coloro che hanno voglia di conoscere, di visitare i vigneti, di appassionarsi al nostro lavoro, di conoscere la storia di un luogo come Borgonato dove il vino si faceva già nel Medioevo nelle tenute del re longobardo Desiderio».
Mariella Caruso