«Il successo di un cuoco e di un ristorante passa sempre attraverso la sala. Anche con una cucina ricca di talento e ottimi ingredienti un progetto non si compie senza una sala all’altezza». L’Ambasciatore del Gusto Beppe Palmieri, maître dell’Osteria Francescana di Massimo Bottura, è un testimone eccellente delle sue parole. «Quando si lavora a un progetto, così come si decide di investire su poltrone di qualità e su una brigata di cucina appassionata, non bisogna dimenticare il passaggio fondamentale della sala – spiega Palmieri -. Ho visto progetti costati milioni fallire perché gli imprenditori non avevano capito che non bastava investire sono nell’arredamento o nel foie gras israeliano ma, prima di tutto, sulla sala».
Oggi sono tanti i giovani che alla sala preferiscono l’idea di un futuro da “star” in cucina…
«Ho avuto la fortuna di cominciare a lavorare negli anni 90. Ancora giovanissimo sono stato a Villa Crespi e alla Locanda Solarola con Bruno Barbieri. A quel punto è arrivata la generazione dei nuovi cuochi italiani: Alaimo, Bottura, Crippa, Uliassi che sono diventati un punto di riferimento, hanno avuto una capacità di racconto tale da far sognare tutti noi che seguivamo un fenomeno che stava nascendo».
Un fenomeno che ha spostato gli equilibri di chi sogna un lavoro nell’alta ristorazione.
«I giovani considerano il cuoco una figura cui ambire, questo automaticamente ha fatto riempire le classi “cucina” dell’Alberghiero facendo rimanere vuote quelle dei mestieri di sala. Siamo comunque di fronte a un successo: forse c’è chi non ricorda che gli istituti alberghieri negli anni 80 e 90 erano considerati scuole di seconda fascia, per le famiglie erano la via di fuga per poter avviare i figli a un lavoro di cuoco o cameriere, occupazioni di seconda categoria. Poi son arrivati gli chef che han fatto sognare e i ragazzi hanno cominciato a voler diventare come Cracco o Alaimo».
Perché non sognano di diventare come Palmieri?
«Forse è frutto di un altro errore. Quando è iniziata la stagione dei congressi enogastronomici che ha riunito i protagonisti della gastronomia sarebbe stato sufficiente che noi maître affiancassimo gli chef sul palco. Ma io per primo mi ponevo il problema di come discutere di sala».
Adesso ha capito come si fa?
«Di sicuro senza fare polemiche. So che in Italia sarebbe facile attirare l’attenzione polemizzando, ma ritengo sia meglio mettersi a discutere di argomenti concreti senza puntare il dito contro le cose che non vanno. Per questo, dal 2011, ho iniziato a parlare dell’argomento sala con giornalisti, blogger e addetti del settore prima organizzando alcune cene a casa mia che via via sono cresciute nel numero dei partecipanti. Poi ho continuato a farlo attraverso il mio blog Glocal».
Quali sono i temi fondamentali di cui trattare?
«Cameriere non si nasce, si diventa; l’importanza del gruppo; l’importanza di investire sulla sala per il successo di un ristorante e per consacrare l’abilità di un cuoco».
Quindi occorrerebbe portare gli operatori di sala ai congressi?
«I congressi sono un’opportunità storica, ma noi siamo sempre sul palco, abbiamo un rapporto continuo con i clienti. Stare in sala è una scelta di vita come la mia in Francescana. Io vivo la Francescana come se fosse mia, ma tutti riconosciamo la leadership di Massimo (Bottura, ndr) e siamo innamorati del progetto».
Come vede il suo domani?
«Non come un romanzo, ma come una storia vera e difficile che scrivo giorno per giorno insieme alle persone con cui lavoro e con cui fare crescere la sala».
Qual è la giusta formazione per il personale di sala?
«Il cuoco deve formarsi dal punto di vista accademico: al di là delle materie prime la tecnica per fare il risotto è sempre la stessa. Il personale di sala, invece, ha bisogno di palestre in cui allenarsi, capire gli strumenti e cucirseli addosso a seconda del posto in cui fa il servizio. Detto questo la scuola è fondamentale per conoscere i contenuti».
I programmi ministeriali sono adatti?
«In tanti dicono che sono sorpassati, ma io non amo l’approccio polemico e sono abituato a trasformare i vincoli in opportunità. Quindi prendiamo quel poco di buono che la scuola offre ai giovani per avvicinarli al mondo della ristorazione in cucina e in sala, ovvero la pratica. Poi ognuno dovrà metterci del suo».
In che senso?
«Io sono uno che ha ribaltato i pronostici. Vengo da Matera e sono scappato dalla cultura del lamento: lavoravo per 400mila lire al mese, ma avevo lo sguardo rivolto al futuro. Ho investito su me stesso e sui doveri del mio lavoro. Oggi, invece, ci preoccupiamo sempre dei diritti che abbiamo, sempre meno dei doveri che fanno arrivare grandi risultati»
Doveri a parte, quali sono le qualità giuste per un uomo di sala?
«Un uomo di sala deve avere grandi qualità dal punto di vista umano e deve essere in grado di servire. “Servire” è un elemento cardine del lavoro di sala, io sono fiero di essere un cameriere (ed è così che preferisco essere chiamato, mi imbarazza essere chiamato maitre o direttore) e vorrei invitare i giovani a sognare di diventarlo. Mi interessa restituire dignità a un mestiere straordinario che gli italiani sono in grado di fare in maniera straordinaria: i migliori uomini di sala e cantina sono italiani, ma sono dovuti andare all’estero perché qui non hanno trovato spazio per crescere ed essere gratificati».
Tornando alla questione principale: come si riporta l’attenzione sui mestieri di sala?
«Facendola sognare ai ragazzi spiegando loro quanto è importante. Occorre riempire i dibattiti di contenuti e non di polemiche, occorre costruire delle palestre in cui i giovani possano completare il loro percorso e tornare a riempire le classi degli istituti alberghieri. Poi magari col tempo cambierà anche la scuola e i suoi programmi. Siamo noi stessi a dover fare arrivare i messaggi giusti. Un esempio: in genere le brigate di sala sono organizzate in maniera verticale, così il ragazzino appena arrivato deve stare zitto e prendere le bottiglie. In Francescana abbiamo passato gli ultimi otto anni a smontare questo assunto mettendo in grado anche l’ultimo arrivato di essere subito operativo. Questo è importante sia per chi viene inserito sia per i clienti perché si crea un clima piacevole e leggero».
C’è altro?
«Sì, sapere che in un ristorante non c’è un solo cliente, ma tanti clienti con esigenze diverse e per questo bisogna avere una grande apertura mentale: i cinesi non salutano né quando entrano né quando vanno via perché fa parte del loro costume non perché sono maleducati; gli americani enfatizzano qualsiasi portata e così via dicendo. Infine la sala è anche il punto cardine per il futuro dell’agroalimentare italiano. Sono i camerieri a esaltare i piatti e i loro ingredienti».
Mariella Caruso