Con sei stelle divise per cinque ristoranti tra Piemonte, Lombardia, Veneto e Toscana, Enrico Bartolini è lo chef più premiato dalla Guida Michelin. Toscano, classe 1979, l’Ambasciatore del Gusto non è solo una superstar dei fornelli, ma anche un capace imprenditore. «Guadagnare una stella è prestigioso, ma non cambia nulla a livello organizzativo perché arriva come riconoscimento di un lavoro già fatto – dice Bartolini -. A cambiare, però, sono le aspettative degli ospiti che non vanno a cena in un ristorante, ma a fare un’esperienza in quel ristorante e questo richiede consapevolezza da parte dello chef. Imprenditorialmente, poi, sono un valore. Dal momento in cui ho avuto le due stelle al Mudec sono aumentate le richieste di collaborazioni all’estero».

Cosa significa essere un cuoco-imprenditore?

«Nei libri di scuola sui quali ho studiato c’era scritto che il cuoco si chiama “chef de cuisine” quando guida un organico di almeno otto persone perché ha un ruolo di managerialità, di controllo ed è responsabile del lavoro di altre persone. Quindi lo chef è già un po’ imprenditore. Fare impresa, invece, è un termine più ampio perché include anche la parte finanziaria e logistica. Nella ristorazione, per la mia esperienza degli ultimi 13 anni di cuoco con partita iva, credo che fare impresa richieda un impegno analogo a quello di una grande industria con in più una vivissima attenzione alle sfumature e una concentrazione massima necessaria a causa della ripetitività delle prestazioni perché il processo di controllo del lavoro svolto è breve e a cavallo della produzione. Questo si traduce in un maggior sforzo e minor ritorno».

Ci fa un esempio pratico?

«Mio padre faceva scarpe e alla fine della produzione c’era il tempo di ricontrollare il lavoro. Se qualcosa era da rifare si ritardava la consegna. Il cliente mugugnava, ma nulla di più. In un ristorante se gli spaghetti sono troppo al dente o scotti vengono rifiutati ed è un danno. Detto questo l’organizzazione di un’attività ristorativa è la cosa che amo più di ogni altra perché mi ha dato stimoli e, da un certo punto in avanti, mi ha permesso di viaggiare con grande qualità».

Esiste una ripetitività anche nel processo di organizzazione di ristoranti diversi?

«Più che ripetitività, bisogna avere coraggio per fare più cose, individuare le risorse umane in grado di occuparsi del controllo di gestione e avere un posizionamento preciso. Dedicarsi a un concetto di ristorazione solo per far volumi senza un’idea precisa sembra facile, ma bisogna tener conto del rischio d’impresa. Poi, anche se c’è una forte attenzione al mondo della gastronomia ed è più facile trovare finanziatori, bisogna impegnarsi a mantenere etico il nostro mondo».

Cosa serve per mantenerlo etico?

«Avere un’idea, farla maturare nel lungo periodo, cercare umilmente di portarla avanti accettando gli errori e, soprattutto, tenendo conto del parere dei clienti. Nelle mie aperture – 5 in prima persona e 6 in partecipazione – c’è sempre stata prima la definizione di un luogo che deve avere qualcosa da dire, poi quella dell’atmosfera che gli si vuol dare e poi la scelta delle persone giuste che è fondamentale. Mi è capitato di rinunciare a proposte importanti per la mancanza di forza di uno staff formato. In generale non mi interessa portare avanti progetti senza prospettiva».

Quello che avete inaugurato e poi chiuso nell’ambito di Fico fa parte di questi ultimi?

«Quello di Fico è stato un progetto che abbiamo avviato in un contesto diverso dai soliti. Ne abbiamo avuto conferma quando il luogo ha cominciato a essere frequentato da persone che non lo associavano a un pranzo gourmet. Io stesso ho amato durante le visite con i miei bambini piluccare qua e là. Così abbiamo chiesto di uscire e ci siamo accordati».

Lei ha rimarcato l’importanza delle risorse umane. Qual è il suo criterio di scelta?

«Una combinazione di caratteristiche che cambiano caso per caso. Donato Ascani che è al Glam a Venezia, per esempio, non ha bisogno di me per cucinare bene; insieme abbiamo formalizzato un menu in cui l’identità veneziana di quel luogo è ben sottolineata. Nelle sue corde c’è l’esaltazione dei dettagli che è possibile in un locale con un numero di coperti contenuto, e Venezia lo permette perché chi arriva al ristorante è disposto a spendere qualcosa in più».

Oggi molti giovani vogliono diventare chef più per la ricerca di successo che per reale amore per la cucina. Come si può contrastare questa tendenza?

«È vero che la comunicazione influenza. Ma avere successo non significa diventare chef da copertina, ma sentirsi realizzato. Io sono felice perché nella mia cucina lavoro con persone che si applicano per realizzare un contenuto. Penso che i giovani interessati a questo mondo dovrebbero avere voglia di entrare in un team e restarci per un po’ per apprendere. Purtroppo oggi ci troviamo davanti al fenomeno del collezionismo delle esperienze».

C’è anche una rigidità degli stagisti che arrivano dalle scuole?

«I ragazzi sono molto attenti agli orari, ma per questo lavoro ci vuole flessibilità: mi piacerebbe che lo stagista restasse per vedere com’è venuta la focaccia alla quale ha lavorato, ma questo dovrebbero comprenderlo anche i genitori. Io, per esempio, andavo a scuola la mattina e la sera lavoravo, ho fatto il libretto di lavoro a 14 anni e a 16 ho incontrato Antonio Pirozzi, in assoluto colui che mi ha dato più stimoli. Oggi io ho paura ad assumere un minorenne per le maggiori responsabilità che ne derivano».

Quanto vale la sala in un ristorante?

«Come imprenditore dico più della cucina perché è la sala che rende l’atmosfera desiderosa di essere vissuta. Come cuoco la sala mi deve dare la sicurezza che tutto il lavoro fatto dall’alba alla notte venga rispettato e che il piatto non venga preso e buttato sul tavolo. Da cliente mi auguro entrambe le cose».

Quali sono le criticità di un imprenditore della ristorazione nel rapporto con lo Stato?

«Premesso che l’Italia è un Paese con una storia gastronomica, disciplina e (forse troppe) leggi che però ci permettono di lavorare molto bene in fatto di qualità e controllo degli alimenti. Quando mi sono trovato a dover decidere di mettere un piede abbondantemente fuori dall’Italia ho rifiutato perché la malinconia per gli ingredienti e la gente italiana sarebbe stata esagerata. Secondo me invece di piangerci addosso dovremmo lavorare per cambiare alcune cose».

Quali, per esempio?

«Avere un regolamento per il “no show” che è un problema serio. Aumentare il rispetto per gli imprenditori che, negli ultimi anni, vengono percepiti come sfruttatori con il conto in banca pieno di soldi. Invece la maggior parte dei piccoli imprenditori, come me, muovono l’economia generando utili molto bassi. Ovviamente l’imprenditore da parte sua non deve avere lavoratori in nero e deve essere organizzato. Ma come si può motivare un cameriere che ha un solo giorno e mezzo libero alla settimana, con 1.300 euro al mese che non corrispondono al costo per l’imprenditore che è ben più alto? Io non contesto il lordo, ma credo che bisognerebbe lavorare a una diminuzione del carico fiscale che avvantaggi il lavoratore».

Mariella Caruso